L’OCCUPAZIONE E LA RESISTENZA

Il propagandistico annuncio di George W. Bush non può nascondere il fatto che la guerra non è affatto finita. Il diario dei giorni immediatamente successivi al 1 maggio è del tutto simile a quello dei giorni immediatamente precedenti; anzi nel tempo l’occupazione si fa più dura e feroce, mentre l’insofferenza da parte irachena cresce, e si traduce in sabotaggi, in incendi di pozzi petroliferi, in attacchi sempre più numerosi alle truppe di occupazione regolari o mercenarie e agli iracheni collaborazionisti, in frequenti attentati, anche suicidi, nell’uso di ogni tipo di arma: dalle armi leggere ai lanciagranate ai mortai alle bombe ai missili. Le autorità occupanti tentano, specie all’inizio, di alterare la realtà dei fatti parlando di soldati americani uccisi o feriti da esplosioni "accidentali", di aerei e di elicotteri precipitati per "incidenti coi fili della luce" o "errori nell’atterraggio", spacciando le uccisioni e i pestaggi dei collaborazionisti per episodi di criminalità comune. Quando non possono negare l’evidenza, gli occupanti attribuiscono la responsabilità dei fatti a sunniti "fedelissimi di Saddam", dunque ad un manipolo residuale di disperati dei quali si finirà per aver ragione; invece l’opposizione è sempre più capillare, si propaga anche a settori molto colpiti dal passato regime baatista e quindi inizialmente meno ostili agli angloamericani, si traduce in episodi sempre più frequenti di rivolta.

Dopo la dichiarazione di fine delle ostilità, coprendosi con l’alibi della ricostruzione dell’Iraq, molti altri paesi inviano proprie truppe per dare man forte a quelle angloamericane. Il premier italiano Berlusconi si distingue per attivismo: il 2 maggio 14 carabinieri sono già in Kuwait; il 9 maggio è allestito a Baghdad l’ospedale da campo della Croce rossa italiana, che serve da copertura all’intervento armato e, per questo motivo, è sconfessato dal Comitato internazionale della Croce rossa in Iraq (il delegato del Comitato internazionale Giuseppe Renda usa parole dure contro "l’operazione di propaganda" condotta in violazione delle procedure dell’organizzazione); il 14 maggio il ministro della Difesa Martino annuncia la partenza delle truppe, 3000 militari che si dispiegheranno nella zona di Bassora sotto il comando inglese. La zona affidata al controllo italiano si rivelerà essere, più precisamente, quella di Nassiriya, per la quale l’Eni aveva stipulato con Saddam Hussein un pre- contratto di sfruttamento dei giacimenti petroliferi (che sarebbe divenuto effettivo con la cessazione dell’embargo): sfuggito il bottino con la caduta del regime baatista, l’Italia tenta di riprenderlo collaborando con i nuovi padroni del petrolio iracheno e ponendo "i nostri soldati a vigilare sul petrolio dell’Eni" – secondo una battuta sarcastica dell’economista Paolo Sylos Labini. Il contingente italiano in Iraq è il terzo, per consistenza, dopo quello statunitense e quello britannico.

Nel mese di luglio 2003, il dipartimento di Stato americano comunica che 30 paesi partecipano all’occupazione con contingenti militari: oltre a Usa, Gran Bretagna e Australia (presente fin dall’inizio della guerra), un primo gruppo comprende Polonia, Spagna, Ucraina, Romania, Estonia, Lettonia, Slovacchia, Salvador, Repubblica Dominicana, Honduras, Nicaragua, Mongolia, Filippine, tutti sotto il comando polacco; inoltre anche Albania, Azerbaigian, Bulgaria, Danimarca, Georgia, Italia, Giappone, Kazakistan, Repubblica Ceca, Lituania, Macedonia, Olanda, Norvegia, Portogallo, Corea del sud danno il loro contributo alla prosecuzione della guerra ufficialmente terminata. Che di guerra si tratti lo ammette anche il generale John P. Abizaid, dal 7 luglio nuovo capo del Comando centrale Usa nel Golfo, che definisce la situazione irachena "conflitto di bassa intensità, ma guerra", anche se poi si allontana dal vero attribuendone tutta la responsabilità ai servizi di sicurezza del vecchio regime e alla guardia nazionale. Questo immenso apparato bellico gode fin dall’inizio di una particolare immunità, conferitagli dall’Ordine n° 17 (sez. 2, comma 4), firmato da Paul Bremer: "Tutti i membri del personale della Coalizione sono soggetti alla esclusiva giurisdizione dei rispettivi stati d’appartenenza e sono quindi immuni dalla locale giurisdizione criminale, civile o amministrativa e da qualsiasi forma di arresto e detenzione salvo quella effettuata da persone che agiscono per conto dei rispettivi stati d’appartenenza".

I piani americani – intralciati dalla resistenza irachena – tendono ad imporre in Iraq un regime succube di Washington e appiattito sugli Usa anche a livello economico; un regime disposto a garantire agli Stati uniti presenza e basi militari sul proprio territorio, disposto a schierarsi a fianco di Israele; ma anche un regime fautore del libero mercato e delle privatizzazioni, pronto a svendere le ricchezze irachene alle multinazionali statunitensi, chiave di volta di un controllo o di una neutralizzazione dell’Opec: l’Iraq dovrebbe diventare in definitiva, nel progetto degli Stati uniti, il primo tassello di un nuovo Medio oriente completamente ridisegnato a misura degli interessi americani.

Per venire a capo della resistenza, per mantenere il paese sotto il proprio ferreo controllo e realizzare i propri obiettivi la strada che gli Stati uniti scelgono, in ossequio al vecchio precetto "divide et impera", è quella di una rottura dell’unità irachena, realizzata anche cercando di giocare sulle differenze etnico- religiose e renderle esplosive: questa strada, già intravista in una gestione bellica mirante a cancellare ogni elemento di unità e coesione nell’Iraq invaso, si delinea ora con maggiore precisione. Un primo passo è quello dello scioglimento dell’esercito iracheno, della guardia repubblicana, dei servizi di sicurezza e delle Corti militari, oltre che dei ministeri della Difesa e dell’Informazione, proclamato da Bremer il 23 maggio: l’esercito multietnico e multiconfessionale è sempre stato in Iraq un elemento di unificazione, perciò nel processo di destrutturazione del paese va abolito; anche se il conseguente licenziamento di 400.000 iracheni e la riduzione delle pensioni dei militari e delle vedove contribuiscono ad aggravare le già infelici condizioni economiche della popolazione e acuiscono l’insofferenza della medesima per gli occupanti.

Altri passi nella stessa direzione si riscontrano nelle nomine delle istanze rappresentative comunali e provinciali, imposte dall’alto su basi etnico – religiose (mal tollerate da larghi strati della popolazione, sono per altro causa, talvolta, di sollevazioni) e ancor più nelle vicende che portano alla nomina del Consiglio governativo. Le forze della coalizione, soprattutto gli Usa, intendono mantenere saldamente nelle proprie mani la gestione politica, amministrativa ed economica dell’Iraq, attraverso l’Autorità provvisoria di coalizione (Cpa) che rappresenta il vero governo del paese; ma per cercare di rendere credibile il loro ruolo di ‘portatori di libertà e democrazia’ devono pur mettere in piedi, prima o poi, una sorta di governo fantoccio. Già il 5 maggio, quindi, Jay Gardner annuncia l’insediamento, entro la metà del mese, di un governo provvisorio, di cui non esplicita bene i compiti: una sorta di tramite tra la Cpa e il paese occupato, costituito da esuli e personalità locali in rappresentanza delle varie entità etniche e religiose del paese. Ma il 17 maggio Usa e Gran Bretagna, timorosi di qualsiasi parvenza di elezioni, decidono di rinviare l’istituzione di tale governo: "non si possono trasferire tutti i poteri nelle mani di un organismo ad interim, perché non avrebbe la forza e le risorse per assumersi le responsabilità", dichiara John Sawers, inviato del governo britannico in Iraq. Successivamente, il 20 maggio, Sawers aggiunge: "Sarà possibile consegnare il potere agli iracheni solo quando un governo sarà eletto liberamente dal popolo iracheno…ci vorrà più di un anno e meno di due anni". Il 13 luglio 2003 invece si insedia il Consiglio governativo dell’Iraq, a carattere provvisorio, non eletto ma di nomina angloamericana, senza reali poteri autonomi, la cui composizione è largamente ispirata a criteri etnico – religiosi. Il Consiglio si compone di 25 membri, dei quali 13 sono sciiti, 9 sunniti, 1 cristiano; oltre alla maggioranza araba, sono rappresentate sia la minoranza etnica kurda (5 membri) che turcomanna (1membro); la scelta di Bremer cade, per i 2/3, su leader kurdi che hanno finora vissuto nella realtà autonoma dell’Iraq settentrionale e su esuli iracheni che da gran tempo non vivono in patria, tutti con una conoscenza assai scarsa della complessiva realtà dell’Iraq odierno: tra gli esuli iracheni, notevole è la presenza di appartenenti allo Sciri (gli occupanti, pur avendo storicamente un rapporto problematico con lo Sciri, che sanno finanziato dall’Iran, ritengono tuttavia che con questo si possa trattare, ed inseriscono nel Consiglio Abdel Aziz al Hakim, fratello minore del leader dello Sciri Mohamed Baqer al Hakim); le donne sono solo 3; la maggior parte dei membri non ha esperienza politica ed è destinata ad essere manovrata dai pochi che ne hanno; tra i membri non mancano voltagabbana, affaristi e anche figure impresentabili come Ahmed Chalabi, un truffatore condannato in Giordania a 22 anni di lavori forzati per bancarotta fraudolenta, da tempo in stretti rapporti coi servizi segreti israeliani, pupillo del Pentagono e leader dell’Inc (l’Iraqi national congress, organizzazione dell’opposizione irachena al regime baatista, filoamericana e specializzata nella fabbricazione di false prove dei legami tra Saddam Hussein e Al Quaeda). Tra questi soggetti, spesso in gara fra loro per rendersi graditi agli occupanti e aumentare il proprio potere personale, intercorrono rivalità esasperate dalle differenti identità e appartenenze etnico – religiose che potrebbero trasmettersi all’intera società irachena.

Ma una composizione di tal fatta, decisa dall’alto, è accolta dalle proteste di molti settori iracheni, sia che abbiano finora sperato sia che non abbiano sperato mai nella pubblicizzata "transizione alla democrazia": manifestano le donne, che si sentono sottorappresentate, in contrasto col ruolo sociale e politico avuto in passato; protestano gli sciiti radicali di Moqtada al Sadr, che contestano la legittimità dell’occupazione e la rappresentanza degli sciiti conferita dagli Usa all’antico partito islamista al Dawa e soprattutto allo Sciri ("io sono il portavoce del popolo sciita – dice al Sadr – il solo legalmente abilitato a guidarlo"); protestano e chiedono libere elezioni anche gli sciiti moderati seguaci dell’ayatollah Ali Husseini al Sistani, adirati per l’esclusione dal Consiglio dei leader sciiti locali a favore di quelli appena rientrati dall’esilio; anche i sunniti hanno di che lagnarsi, perché dei loro 9 rappresentanti 4 sono kurdi e 2 sono esuli (tra questi ultimi Adnan Pachachi, veterano della politica irachena, ex ministro degli Esteri, il quale appena prima della guerra aveva rifiutato la proposta statunitense di ricoprire un ruolo nell’era post- Saddam, per l’ottima ragione che "prestare servizio in una istituzione consultiva legata all’amministrazione militare americana sarebbe dannoso e inaccettabile": ma ora ha evidentemente cambiato idea). Come se non bastasse la sudditanza dei suoi membri nei confronti degli occupanti, il Consiglio governativo provvisorio è guidato da un triumvirato composto dal proconsole americano Paul Bremer, dal britannico John Sawyers e dall’inviato speciale dell’Onu per l’Iraq Sergio Vieira de Mello. Compiti del Consiglio sono la nomina e la revoca dei ministri, la designazione degli ambasciatori, l’approvazione dei bilanci, la formazione di una commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione irachena; e ancor prima di tutto ciò, la elezione del proprio presidente: tuttavia le rivalità tra i membri sono talmente accese che non si trova l’accordo nemmeno su quest’ultimo punto e si opta per una presidenza a rotazione delle varie componenti. La prima ‘storica’ decisione di merito è quella di sostituire alcune festività – abolite – con quella che d’ora in poi celebrerà, il 9 aprile, la caduta di Saddam Hussein. Dietro insistenza di Bremer, il Consiglio trova inoltre l’accordo sui componenti di una delegazione da inviare presso l’Onu, per sollecitare il riconoscimento del nuovo assetto iracheno e quindi da un lato sbloccare gli appalti, dall’altro fornire agli Usa un ulteriore strumento di pressione per convincere altri stati ad inviare truppe fresche in Iraq; a comporre la delegazione sono chiamati i tre membri del Consiglio considerati più esperti: il capo dell’Inc Ahmed Chalabi, l’ex ministro Adnan Pachachi e – visto che tra i due non corre buon sangue – in funzione di mediatrice Akila al Hashimi, ex funzionaria baatista, diplomatica, in passato collaboratrice di Tarek Aziz (ferita in un attentato della resistenza il 20 settembre 2003, Akila al Hashimi morirà il successivo 25 settembre).

Apriamo, a questo proposito, una parentesi. L’Onu, in realtà, ha già dato un riconoscimento implicito dell’operato angloamericano in Iraq con la risoluzione n° 1438 del 22 maggio 2003: in questa data il Consiglio di sicurezza, con 14 voti favorevoli e nessun contrario (la Siria non partecipa alla votazione), decreta la fine, dopo 13 anni, delle sanzioni economiche imposte all’Iraq, in cambio di un ruolo minimo riconosciuto all’Onu nella gestione dell’occupazione, e cioè la nomina di un proprio rappresentante che affianchi gli amministratori americani e inglesi dell’Iraq (la scelte del rappresentante cade sul candidato caldeggiato dalla Casa bianca, Vieira de Mello). I proventi del petrolio iracheno, insieme alle ricchezze irachene congelate nei vari stati e ai residui proventi dell’oil for food, in base alla risoluzione d’ora in poi confluiscono nel Fondo per lo sviluppo, costituito presso la Banca centrale di Baghdad e gestito direttamente da Usa e Gran Bretagna; mentre i debiti internazionali contratti dal vecchio regime sono congelati fino al 2007. La risoluzione n° 1438 legittima retroattivamente una guerra illegittima e riconosce il protettorato degli aggressori sull’Iraq. Il nuovo riconoscimento, sollecitato dagli occupanti tramite la delegazione inviata dal Consiglio governativo iracheno, avviene con la successiva risoluzione n° 1500 del 14 agosto 2003, in cui il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, con l’astensione della Siria, dà "il benvenuto all’istituzione del Consiglio governativo dell’Iraq, altamente rappresentato…, quale importante passo verso la formazione, da parte del popolo iracheno, di un governo internazionalmente riconosciuto e rappresentativo dei diversi componenti dell’Iraq".

Le due risoluzioni suscitano il più aspro risentimento nel popolo iracheno, che non ha dimenticato le mortali sanzioni imposte dall’Onu all’Iraq e che sempre più chiaramente identifica nell’Onu la longa manus degli Stati uniti. La resistenza irachena il 19 agosto colpisce la sede principale delle Nazioni unite a Baghdad, l’hotel Canal, con un sanguinoso attentato in cui periscono, oltre a Sergio Vieira de Mello, altre 22 persone: tra gli uccisi ci sono militari occupanti e membri di organismi finanziari internazionali. Gran parte del personale Onu lascia l’Iraq. Dopo l’attentato, Denis Halliday, ex coordinatore del programma delle Nazioni unite per l’Iraq, biasima la collaborazione Onu – Usa tesa a "legittimare l’occupazione dell’Iraq" e definisce l’Onu come "un braccio dell’amministrazione Usa, una divisione del suo dipartimento di Stato". Il 22 settembre, una autobomba esplode presso l’hotel Canal: questo secondo attentato alla sede Onu causa 2 morti e 18 feriti, tutti poliziotti iracheni. L’Onu dispone il trasferimento temporaneo di altro personale in Giordania, ma non cambia la propria linea di sostegno all’occupazione. Il 16 ottobre 2003, la risoluzione n° 1511 riconosce l’occupazione dell’Iraq, la legittimità dell’Autorità provvisoria di coalizione (Cpa) e del Consiglio governativo purché entro il 15 dicembre quest’ultimo sottoponga al Consiglio di sicurezza dell’Onu "un calendario e un programma per la redazione della nuova Costituzione e per l’indizione di elezioni democratiche in base alla nuova Costituzione". L’Onu non stabilisce nemmeno una scadenza entro la quale effettuare il passaggio dei poteri, ma solo una ridicola scadenza entro la quale fissare un calendario, che potrà essere del tutto vago e futuribile; gli Usa incassano comunque una ulteriore legittimazione, da sbandierare alla Conferenza dei donatori di Madrid per ottenere denaro.

Torniamo alle nuove istituzioni imposte all’Iraq. Il 1 settembre 2003, il Consiglio governativo nomina i componenti del nuovo governo iracheno, rispettando gli stessi criteri di ripartizione confessionale ed etnica degli incarichi che ormai caratterizza tutte le istituzioni irachene. Il nuovo governo è totalmente subordinato agli occupanti: non esiste un primo ministro, tale funzione sarà di fatto svolta da Paul Bremer; ogni ministro iracheno sarà affiancato da un ‘consigliere’ dell’Autorità provvisoria di coalizione che dovrà ratificarne le decisioni. Il ministero dell’Interno è affidato a Nuri al Badram, fino a ieri portavoce dell’Accordo nazionale iracheno (l’organizzazione dell’opposizione irachena a Saddam Hussein più legata non solo alla Cia ma anche al Mi6, cui ha passato la bufala di un Saddam capace di attivare le armi di distruzione di massa in 45 minuti).

Anche l’atteggiamento statunitense nei confronti delle aspirazioni kurde è parte integrante del disegno di divisione dell’Iraq. Le autorità di occupazione hanno fin dall’inizio della guerra assecondato le tendenze centrifughe dei partiti kurdi: questi ora non si contentano più dell’autonomia ma chiedono, a compenso della loro collaborazione con gli invasori, la creazione di una entità statale separata avente ad oggetto non solo le tre province a maggioranza kurda già autonome dal 1991, ma anche la provincia di Kirkuk. Capoluogo di una provincia del nord ricchissima di petrolio, Kirkuk è stata ‘arabizzata’ a forza da Saddam Hussein, ed ora presenta una maggioranza di arabi e turcomanni: la Cpa avalla, lasciando correre, la pulizia etnica qui operata dai kurdi, così come la promessa fatta da Massud Barzani del ritorno a Kirkuk di oltre 300.000 kurdi, i quali prenderebbero per sé le case e i beni di arabi e turcomanni. Il favoritismo delle autorità occupanti verso i kurdi suscita l’insofferenza degli altri leader iracheni, anche di quelli filoamericani, che pure non vedono di buon occhio la separazione dall’Iraq delle province del nord.

L’irresponsabile politica di divisione posta in essere dagli angloamericani potrebbe causare lacerazioni insanabili tra gli iracheni: in realtà, a parte qualche episodio, l’insofferenza degli iracheni si rivolge contro gli occupanti, mentre il fantasma della guerra civile si rivela uno dei pretesti invocati da chi non ha nessuna intenzione di restituire l’Iraq agli iracheni. Non è contro gli sciiti, ma contro il collaborazionismo (sempre che tale attentato sia da attribuirsi alla resistenza) l’autobomba che il 29 agosto provoca la morte dell’ayatollah Mohamed Baqer al Hakim e di altre 83 persone, oltre a 175 feriti: anche se certamente aggrava le tensioni tra sciiti e sunniti. L’ayatollah al Hakim, imprigionato e torturato da Saddam Hussein negli anni ’70, esule in Iran e leader dello Sciri dalla sua fondazione nel 1980, rientra dall’esilio il 10 maggio accolto al confine da migliaia di sostenitori. Lo Sciri, inizialmente dubbioso, partecipa nell’estate del 2002 alle riunioni dell’opposizione irachena filoamericana in vista del rovesciamento di Saddam Hussein, ed è privilegiato come interlocutore dagli Stati uniti rispetto ad altre organizzazioni, sciite e non, per l’enorme potere di controllo che esercita sulle masse sciite, essendo la più prestigiosa organizzazione dell’opposizione in esilio. Mohamed Baqer al Hakim nei suoi primi discorsi dopo il rientro esprime il rifiuto per l’occupazione, afferma il diritto degli iracheni a scegliere il sistema politico che vogliono, senza interferenze straniere, e propugna un governo composto da tutti i gruppi etnici e confessionali; ma contemporaneamente rassicura gli Usa, accetta che lo Sciri partecipi alle trattative per l’instaurazione di un governo fantoccio e poi che sia rappresentato nel Consiglio governativo da suo fratello Abdel Aziz; inizia a predicare la pazienza verso l’occupante e il 7 luglio, in un’intervista ad al Jazeera, conferma la fatwa, emanata da alcuni dottori dell’Islam sciiti, che proibisce la partecipazione alla resistenza armata nei confronti delle forze di occupazione; afferma che con gli Usa "bisogna percorrere la via del dialogo": fa tutto quanto è in suo potere per accreditare l’immagine di una opposizione all’occupazione come appannaggio di soli sunniti, meglio ancora dei soli baatisti, e non della maggioranza della popolazione. Analoghe considerazioni si possono fare a proposito dell’attentato del 20 settembre contro Akila al Hashimi.

Sono reali, ma tutte interne al campo sciita, le tensioni tra le forze di Ali Husseini al Sistani e di Moqtada al Sadr: tensioni che sfociano anche in scontri armati il 14 ottobre, quando le truppe di Moqtada (l’esercito al Mahdi) tentano di prendere il controllo dei luoghi santi di Kerbala, ma che si risolvono subito con un negoziato. Moqtada al Sadr, nipote di un ayatollah di grande prestigio – Muhammad Sadeq al Sadr, ucciso nel 1999 per ordine, forse, di Saddam Hussein – e feroce nemico del regime baatista, è l’unico leader sciita che si oppone con decisione fin dall’inizio all’occupazione angloamericana, contro la quale considera legittima la resistenza armata; portavoce dello sciita radicale Kadhim al Hairi (che vive a Qom, in Iran), Moqtada al Sadr si ispira anche agli hezbollah libanesi e auspica uno stato islamico basato sul velayat-e faqih. I contrasti con gli sciiti moderati sono inevitabili: Moqtada al Sadr è anche sospettato di responsabilità nella morte di Abdul Majid al Khoei, il leader religioso filoccidentale ucciso a Najaf il 10 aprile; ovvio il suo contrasto con lo Sciri, che sia pure con qualche esitazione si è schierato a fianco degli occupanti; ovvio anche il contrasto con il moderato Ali Husseini al Sistani. Al Sistani infatti si dichiara da subito contrario ad ogni ipotesi di governo fantoccio, chiede autodeterminazione e libere elezioni per l’Iraq, emette una fatwa che vieta la collaborazione con l’Autorità di coalizione e le istituzioni da questa create, ma non auspica una resistenza armata contro l’occupazione e rifugge dall’ipotesi di uno stato teocratico. Le divergenze e gli scontri sulle forme di lotta e sul modello di stato da realizzare dopo la fine dell’occupazione non impediscono la realizzazione di alleanze tattiche tra al Sistani e al Sadr, che danno luogo in momenti cruciali a grandi manifestazioni comuni e, come si vedrà, al riavvicinamento dinanzi all’escalation militare americana e alle minacce Usa contro Moqtada al Sadr (aprile 2004).

Anche nel Kurdistan iracheno regna una situazione di estrema tensione tra kurdi da una parte e arabi (oltre a turcomanni e assiri) dall’altra. Le spinte separatiste dei partiti kurdi sono avallate dagli Stati uniti, la pulizia etnica contro arabi, turcomanni, assiri – sulla quale gli occupanti chiudono entrambi gli occhi – è sempre più feroce, non si limita alla sola Kirkuk come reazione alla arabizzazione promossa da Saddam Hussein, ma si estende a tutto il Kurdistan. Il 20 novembre 2003 un attentato contro gli uffici dell’Upk a Kirkuk provoca 5 morti e oltre 40 feriti, ma i fatti più sanguinosi avvengono il 1 febbraio 2004 ad Arbil: due attentatori suicidi si fanno esplodere quasi contemporaneamente nelle sedi dell’Upk e del Pdk, causando oltre 100 morti e 250 feriti. Questo doppio attentato è attribuito al gruppo di Ansar al Islam, di tendenza wahabita, insediato nel Kurdistan al confine con l’Iran e da tempo ostile all’Upk: americani e kurdi ritenevano di averne distrutte le basi nella fase iniziale della guerra, ma ora il gruppo si è ricostituito. Il gruppo di Ansar sarebbe legato ad al Qaeda e guidato da Abu Mussab al Zarqawi, un reduce dall’Afghanistan di origine giordana (il collegamento tra Ansar al Islam e al Zarqawi, ipotizzato dall’intelligence americana, è però tutt’altro che certo). La presenza di Ansar sul territorio iracheno, per inciso, è una delle fantomatiche ‘prove’ dei contatti tra Saddam Hussein e al Qaeda portate dagli Usa a giustificazione della guerra: in realtà il gruppo islamico non ha mai mostrato alcuna simpatia per il dittatore iracheno, né prima né dopo la sua caduta.

Gli Stati uniti, senza perdere tempo, attribuiscono ad al Zarqawi e ad al Qaeda anche i terribili attentati del 2 marzo 2004 che, durante la ricorrenza sciita della Ashura, colpiscono i luoghi santi di Kerbala e di Khadimia presso Baghdad. La Ashura celebra il martirio di Hussein, figlio dell’imam Alì fondatore dello sciismo, i luoghi santi sono affollati di pellegrini, il sanguinoso bilancio è di almeno 182 morti e oltre 600 feriti. Ma la guerra civile non scoppia, l’Iraq non si divide: tutti i leader religiosi iracheni invitano i fedeli a non cadere nella trappola e a restare uniti, l’ayatollah al Sistani stigmatizza le colpe degli occupanti per aver privato il paese della sua forza di sicurezza e invita "tutti i cari figli dell’Iraq a essere vigilanti…a lavorare sodo per unirsi tra di loro ed avere una sola voce al fine di accelerare la riconquista della menomata sovranità, indipendenza e stabilità della patria"; l’eccidio è condannato da tutti i gruppi iracheni, mentre il sospetto nei confronti di Stati uniti e Israele quali mandanti è generale e spinge la folla ad assalti contro le truppe americane. Nonostante questi tragici eventi, la crescente ferocia dell’occupazione e l’escalation militare americana portano ad una sempre maggiore integrazione tra la resistenza sciita e sunnita.

L’attiva comunanza di interessi con gli occupanti che contraddistingue il comportamento del Partito comunista iracheno prima e durante la guerra può spiegare l’attentato che il 23 gennaio 2004 colpisce la sede del partito nella capitale e provoca 2 morti. Prima della guerra, il Pci partecipa alle riunioni dell’opposizione irachena filoamericana al regime baatista; quindi si associa ai piani di invasione, appoggia l’occupazione, accetta di buon grado la partecipazione al Consiglio governativo con un proprio rappresentante (in quota sciita). E’ giusto comunque ricordare che questo comportamento del Pci determina una vasta crisi nel partito e spinge molti comunisti dissidenti a uscirne per partecipare alla resistenza contro l’occupazione.

L’odio per chi collabora con gli occupanti è alla base dei numerosi attacchi contro iracheni che lavorano per le forze della coalizione, ad esempio come funzionari o come poliziotti. Eclatante e cruento è quello del 10 febbraio 2004, quando un’autobomba si lancia contro una stazione di polizia affollata di persone che desiderano arruolarsi e provoca 50 morti e 150 feriti: ma attentati di questo genere si fanno sempre più frequenti. Più difficile è capire la logica dell’attentato compiuto a Baghdad con un’autobomba il 27 ottobre 2003 contro il Comitato internazionale della Croce rossa: la morte di civili, anche iracheni, uccisi indiscriminatamente, e il tipo di obiettivo rendono l’azione molto diversa dalle solite. Occorre ricordare che qualche giorno prima, il 23 ottobre, si è aperta a Madrid la Conferenza dei donatori, mediante la quale gli Stati uniti tentano di raccogliere fondi per la ‘ricostruzione’ dell’Iraq, senza attendere la formazione di un governo sovrano (che comunque nelle loro intenzioni non ci sarà mai). L’impresa è ardua, anche perché gli Usa sembra siano responsabili di un ‘buco’ di 4 miliardi nella gestione dei fondi derivanti dall’oil for food e della distrazione di altre somme; gli Stati uniti incoraggiano i potenziali donatori con la promessa di farli partecipare ai buoni affari della ‘ricostruzione’. Al Foro umanitario della Conferenza partecipa anche la Croce rossa, a fianco della Cpa e del Consiglio governativo: colpire la Croce rossa significa forse, nelle intenzioni degli attentatori, mandare un segnale minaccioso ai ‘donatori’, che in realtà si preparano a finanziare l’occupazione, ad aumentare il debito pubblico iracheno (le ‘donazioni’ sono spesso soltanto prestiti) e ad appropriarsi delle ricchezze dell’Iraq.

Naturalmente, gli obiettivi più frequenti della resistenza irachena sono le istituzioni dell’occupazione, le ambasciate dei paesi che partecipano ad essa, le truppe occupanti. In questo quadro si inserisce l’attentato compiuto il 12 novembre 2003 con un camion bomba contro il contingente italiano di stanza a Nassiriya, che provoca 19 morti (12 carabinieri, 5 soldati dell’esercito e 2 civili) e 20 feriti. Gli Stati uniti spesso lamentano anche 30 – 35 attacchi al giorno solo contro i propri effettivi. La quantità e la qualità degli attentati rende di per sé ridicole le dichiarazioni delle autorità occupanti che, soprattutto nei primi mesi dell’occupazione, li attribuiscono ai ‘fedelissimi di Saddam’: i membri del disciolto partito baatista non hanno di sicuro simpatia per gli occupanti e probabilmente molti di essi partecipano alla resistenza, ma la resistenza non è organizzata dalle gerarchie del vecchio regime e non dipende da loro. Prova ne sia che non è minimamente messa in crisi quando, il 22 luglio 2003, dopo una impari battaglia durata per altro sei ore, sono uccisi a Mossul, da componenti della 101ma divisione aerotrasportata, i figli dell’ex dittatore Uday e Kusay insieme ad un altro adulto e un ragazzo. Nemmeno la cattura di Saddam Hussein ferma o scompagina la resistenza.

Saddam è – secondo le autorità di coalizione – catturato dai marines americani la notte del 13 dicembre 2003 ad Adwar, presso Tikrit, in uno squallido nascondiglio: ma la versione ufficiale nasconde retroscena non ancora chiariti. Catturato dai kurdi dell’Upk che lo hanno ceduto poi agli americani in cambio di vantaggi politici, individuato con l’aiuto dei servizi segreti iraniani (che hanno comunque buoni rapporti con l’Upk), tradito dalla sua guardia del corpo Mohammed Ibrahim Omar al Muslit (il cui fratello Adnan Abdullah Abid al Muslit, ferito e catturato a fine luglio dagli americani, è tuttora loro prigioniero); o forse le tre ipotesi non si escludono a vicenda ma si integrano: difficilmente sapremo la verità. Colpisce una ‘coincidenza’: il 10 dicembre 2003 Abdel Aziz al Hakim, presidente di turno del Consiglio governativo, annuncia l’istituzione di un Tribunale speciale, che dovrà giudicare gli esponenti del passato regime per crimini di guerra e contro l’umanità, e solo tre giorni dopo Saddam Hussein è ufficialmente catturato. Il Tribunale speciale, composto di giudici iracheni coadiuvati da assistenti americani, in effetti è istituito celermente a Baghdad, ma del processo per 4 mesi non si parla: solo il 21 aprile 2004 Salem Chalabi, nipote di Ahmed e direttore del team incaricato di preparare il processo, comunica che il Consiglio provvisorio ha scelto i 12 membri iracheni (7 giudici e 5 procuratori) della Corte incaricata di celebrare il processo; Saddam Hussein, intanto, ha lo status di prigioniero di guerra, è nelle mani delle autorità americane in una località segretissima (in Qatar, secondo il britannico "The Indipendent" del 7 aprile 2004: il comando Usa non conferma né smentisce); si ha notizia di due visite della Croce rossa al prigioniero in base alla convenzione di Ginevra, ma non si sa dove siano avvenute. Del dittatore iracheno ci restano le immagini risalenti alle prime ore dopo la cattura e trasmesse ossessivamente dai media occidentali: quelle di un uomo frastornato, forse drogato, provato dalla latitanza e dalla recente reclusione – più o meno volontaria – in uno squallido buco, assoggettato a ispezioni corporali umilianti.

Dopo la cattura del dittatore, il comandante delle truppe americane in Iraq, Ricardo Sanchez, ammette "non crediamo per il momento…in una completa eliminazione degli attacchi. Credo continueranno ancora". Infatti continuano, e la bufala che vuole identificare la resistenza con i ‘fedelissimi di Saddam’ non regge più, neppure se è integrata con l’aggiunta di ‘jihadisti infiltrati’ preferibilmente dalla Siria: non è da escludere che molti mussulmani, molti arabi di altri paesi possano aver deciso di entrare in Iraq per contribuire a difendere il paese dall’invasione, ma la resistenza è essenzialmente irachena.

Per neutralizzare i quadri del partito Baath, soprattutto a livello medio- alto, la Cia mette in campo un gruppo operativo composto da elementi provenienti dalla Delta force, dai Navy seals e da proprie forze paramilitari: una polizia segreta che collabora con le milizie degli esiliati tornati in Iraq insieme agli occupanti ma anche con ex membri del servizio segreto di Saddam (e usa le loro informative) per le uccisioni mirate di uomini del vecchio regime o simpatizzanti baatisti o semplici nazionalisti, che si dedica a retate e punizioni indiscriminate, che isola col filo spinato i villaggi considerati ostili, che gestisce centri di detenzione e dirige gli interrogatori dei carcerati, che insomma compie operazioni del tutto affini a quelle previste dal ‘programma Phoenix’ ai tempi della guerra in Vietnam. Sul "New Yorker" del 9 dicembre 2003, Seymour Hersh descrive, per primo, la creazione di questa task force, attribuendola alla volontà politica di Rumsfeld contro le resistenze dello stesso Pentagono. Continuando la sua inchiesta, Hersh sul "New Yorker" del 15 maggio 2004 spiega che il programma segreto iracheno è l’articolazione locale di un più vasto programma, voluto da Rumsfeld all’indomani dell’11 settembre 2001, che autorizza preventivamente, ovunque, l’uccisione, la cattura, l’interrogatorio di elementi ‘di alto valore’ nel quadro della ‘lotta al terrorismo’. Le forze speciali agiscono sotto copertura, e il costo dell’operazione non appare nel bilancio in modo che il Congresso ne rimanga all’oscuro. Il Pentagono, com’è ovvio, si precipita a definire "assurda, cospirativa, piena di errori e congetture anonime" l’inchiesta di Hersh: ma assurda non è se si pensa non solo all’inquietante affinità con l’operazione Phoenix, ma al fatto che dopo l’11 settembre il Congresso americano ha autorizzato a condurre la ‘guerra al terrorismo’ in violazione di ogni norma di diritto interno e internazionale.

La resistenza si estende presto ben oltre il triangolo sunnita (Falluja – Baquba – Ramadi, che pure è un suo importante fulcro), soprattutto nelle zone del centro – sud e del sud, infliggendo perdite non solo alle truppe americane, ma anche a quelle sotto comando britannico (come le truppe italiane) e polacco; le sue azioni incessanti frustrano le ambizioni degli occupanti, impediscono loro di volgere a proprio vantaggio la gestione dell’occupazione: ad esempio, impediscono il funzionamento regolare degli aeroporti di Bassora e di Baghdad, ostacolano la produzione e l’esportazione di petrolio (i cui proventi devono finanziare l’occupazione), intralciano gli affari delle multinazionali. E pensare che una provvida legge del settembre 2003 permette alle società estere di controllare il 100% di quelle irachene e di esportare il 100% dei profitti, mentre fissa nel 15% l’aliquota massima dell’imposta sui redditi d’impresa; che il ministero dell’Industria stabilisce che tutte le imprese irachene di una certa rilevanza economica siano privatizzate e svendute alle multinazionali: questi incentivi rischiano di non funzionare, le imprese straniere incontrano rischi e costi più elevati del previsto, a causa della resistenza. Aumentare il livello della repressione non fa che incrementare di pari passo le attività e le articolazioni della rivolta.

Per gli stessi motivi, la resistenza rende più difficile il tentativo di coinvolgere nell’occupazione truppe fresche di paesi terzi e alleggerire così la insostenibile pressione cui sono sottoposte le truppe da tempo stanziate in Iraq: presso le quali il morale è basso, il tasso dei suicidi più elevato del normale, si riscontrano diserzioni. A fronte di questo problema, le autorità occupanti sono indotte a ricostituire, in proprio appoggio, un esercito e da una polizia iracheni; occorre così reclutare e addestrare queste nuove forze in modo da garantirsene la fedeltà: tra i compiti delle truppe italiane di stanza a Nassiriya, per esempio, c’è quello di addestrare la locale polizia irachena; successivamente anche la Giordania si impegna ad addestrare la polizia irachena sul proprio territorio. Dai primi giorni di settembre 2003, il Consiglio governativo e la Cpa tentano di rendere operativo un nuovo esercito iracheno di 40.000 soldati: la società privata di sicurezza "Vinnel corporation", americana, procede alla formazione e all’addestramento del primo nucleo di questo esercito. Contemporaneamente, il ministro dell’Interno Nuri al Badram propone di reclutare 70.000 membri da integrare in formazioni paramilitari, polizia regolare, vigili urbani e guardia di frontiera. Le autorità americane non sono troppo favorevoli alla creazione di forze paramilitari, ma il 18 settembre il presidente del cosiddetto ‘Comitato di sicurezza’ del Consiglio governativo Iyad Allawi (anch’egli come Nuri al Badram appartenente all’Accordo nazionale iracheno) annuncia che si è trovato un accordo con gli americani e che un primo contingente della forza paramilitare, da usare contro la resistenza, sarà operativo entro fine anno. In realtà solo il 7 novembre 2003 Paul Bremer accetta la formazione di una milizia paramilitare irachena, costituita da elementi provenienti dalle varie ‘milizie’ delle organizzazioni irachene legate agli Usa, cioè l’Upk di Talabani, il Pdk di Barzani, la Sciri, l’Inc (Congresso nazionale iracheno) di Chalabi e l’Accordo nazionale iracheno di Allawi. Le autorità statunitensi cambiano idea a proposito della forza paramilitare perché la situazione della sicurezza in Iraq è insostenibile, mentre il Pentagono vorrebbe ridurre le truppe già dal 2004 (intenzione poi frustrata dagli eventi) e i tempi per l’addestramento di un esercito regolare iracheno sono lunghi. Un primo nucleo di circa 800 paramilitari, composto come sopra descritto, è pronto il 4 dicembre a collaborare nella lotta antiguerriglia, ma non basta; nella stessa data, Colin Powell chiede alla Nato di intervenire con urgenza "per contribuire di più alla pace e stabilità" dell’Iraq, che si trova in condizioni definite "critiche", e nessuno Stato membro (neppure Francia e Germania) manifesta al momento la sua opposizione. Nel martoriato Iraq proliferano, con lauti profitti, anche le cosiddette ‘società di sicurezza’ private, spesso veri e propri gruppi paramilitari: si calcola che nel paese siano presenti dai 20.000 ai 30.000 ‘civili armati’ per un costo di 4 miliardi e mezzo $ (tratti dagli stanziamenti ottenuti dal Pentagono per la ricostruzione dell’Iraq). Si tratta di un vero e proprio esercito che spesso assolve anche compiti strettamente militari, con disinvolte regole d’ingaggio e licenza d’uccidere, perfetto per lo svolgimento di ‘lavori sporchi’, che non risulta ufficialmente collegato con i paesi occupanti e quindi non li coinvolge nel biasimo in caso di attività riprovevoli o nel lutto in caso di morte dei suoi effettivi (nel solo 2003, 94 dipendenti delle compagnie di sicurezza in affari con il Pentagono sono morti e 1.164 sono rimasti feriti). I privati ‘addetti alla sicurezza’ in Iraq provengono dagli eserciti, dalle forze speciali, dai servizi segreti, persino dalle ong; possono essere gurkha nepalesi (che in passato erano il nucleo dell’esercito coloniale britannico), o cileni provenienti dalle forze speciali di Pinochet o sudafricani bianchi appartenenti alla polizia segreta durante il regime dell’apartheid, e simili. Anch’essi sono garantiti dall’Ordine n° 17 di Paul Bremer (sez.3, commi 1 e 2): non sono soggetti alle leggi irachene in materie relative ai termini dei loro contratti e sono immuni da ogni procedimento legale iracheno. La domanda crescente di sicurezza, in Iraq, fa sì che le paghe dei civili armati, già molto alte, raggiungano livelli stratosferici: e questo invoglia anche ragazzi senza specifico addestramento bellico, ma desiderosi di rapidi guadagni e cresciuti col mito di Rambo, a chiedere l’assunzione; d’altro canto, proprio l’alto livello della domanda e la difficoltà a reperire personale adeguato spinge le società con meno scrupoli ad assumere anche i candidati più improvvisati e ad inviarli allo sbaraglio in Iraq: il tutto è facilitato dalla lunga catena di subappalti che si frappone tra la prima società appaltatrice in diretto contatto con il Pentagono e il singolo ‘civile armato’ assunto magari al nero da un sub-subappaltatore. Sembra si possa inquadrare in questo contesto la vicenda dei quattro italiani catturati come ostaggi il 12 aprile 2004 nella zona di Falluja.

Fin dall’inizio della guerra, o anche da prima, la coalizione si avvale del supporto di consiglieri israeliani, adusi ad affrontare le conseguenze dell’occupazione di un territorio altrui: alcuni di essi sono in Iraq, altri – secondo il britannico "The Guardian" – addestrano le forze statunitensi a Fort Bragg (North Carolina). E’ anche questa la ragione per cui molti resoconti e riprese televisive che ci giungono dall’Iraq richiamano sinistramente quelli che ci giungono dai Territori occupati: rastrellamenti con numerose vittime civili, fuoco aperto indiscriminatamente contro la folla ad ogni pretesto, sradicamento di alberi, abbattimento delle case dei sospetti appartenenti alla resistenza, punizioni di interi villaggi o città per l’uccisione di qualche soldato americano, immagini di iracheni legati e brutalmente interrogati dai soldati, reclusioni senza formulazione di accuse e senza processo, ignobili torture.

I governi che partecipano all’avventura irachena devono scontare all’interno dei propri paesi la contrarietà alla guerra di una percentuale crescente di cittadini, anche là dove l’invasione dell’Iraq ha trovato il sostegno iniziale della popolazione come negli Stati uniti e in Gran Bretagna. Mentre le menzogne su cui è stato costruito l’intervento bellico cominciano a diventare di pubblico dominio, scende la popolarità di George W. Bush e di Tony Blair: il primo, che affronta una campagna elettorale difficile, deve difendersi dalle accuse di aver mentito nel collegare Saddam Hussein agli attentati alle Torri gemelle e di aver colpevolmente sottovalutato il pericolo del terrorismo per la volontà di invadere a tutti i costi l’Iraq, mentre anche la Commissione d’inchiesta sull’11 settembre 2001 – che è stato costretto a concedere – lo mette al proposito in difficoltà; il secondo deve affrontare le conseguenze del caso Bbc – Kelly, scoppiato il 29 maggio 2003 quando l’emittente – sulla scorta delle informazioni fornite dallo scienziato David Kelly, ex ispettore in Iraq e collaboratore del ministero della Difesa – rivela che il rapporto governativo sulla minaccia costituita da Saddam Hussein è stato truccato perché fosse più "sexy", più convincente: Kelly, individuato come fonte della Bbc, va incontro ad uno strano ‘suicidio’ il 18 luglio 2003, la Bbc è decapitata dei suoi vertici, l’operato del governo circa la guerra all’Iraq è giudicato corretto dalla benevola commissione di inchiesta presieduta da lord Hutton, ma i riflessi negativi della vicenda sono politicamente rilevanti.

Il ginepraio iracheno richiede ancora l’aiuto dell’Onu, inizialmente scavalcata con sufficienza ma in seguito rivelatasi assai preziosa e servizievole. Si tratta di ottenere una risoluzione che cambi tutto senza cambiare nulla, che metta il casco blu sulle teste dei soldati occupanti e nel contempo faciliti il coinvolgimento in Iraq di altri paesi e della Nato in supporto alla ‘coalizione dei volonterosi’, che riconosca il nuovo Iraq autonomo chiudendo gli occhi sulla sua sovranità limitata. Innanzitutto occorre dare adempimento, almeno formalmente, alla risoluzione n° 1511 del 16 ottobre 2003: il successivo 14 novembre la Cpa e il Consiglio governativo si accordano per l’istituzione, entro il 30 giugno 2004, di una nuova autorità governativa irachena ampliata, che secondo i loro progetti dovrebbe essere designata da un parlamento provvisorio, i membri del quale a loro volta sarebbero designati dalle autorità locali (legate agli Usa) di 18 province irachene; le elezioni libere, secondo i piani americani, sono rimandate al 2005. Il progetto incontra ovviamente la forte opposizione degli iracheni; nel gennaio 2004 chiedono libere elezioni, con imponenti manifestazioni, gli sciiti moderati e radicali: questi ultimi, a differenza dei primi, chiedono come pregiudiziale la fine dell’occupazione (la stessa posizione hanno i sunniti). L’ayatollah al Sistani, il 23 gennaio, invita i suoi seguaci a cessare le manifestazioni, in attesa che una missione dell’Onu valuti la possibilità di elezioni dirette. La missione dell’Onu, guidata da Lakhdar Brahimi, giunge in Iraq il 7 febbraio; Brahimi, formalmente, sostiene le richieste dell’ayatollah ("riteniamo che le elezioni siano il modo migliore per permettere agli iracheni di dar vita ad uno stato che serva ai loro interessi"), ma non si sbilancia sui tempi delle elezioni. Quella che inizialmente sembra una vittoria di al Sistani si trasforma, come era prevedibile, in una vittoria americana, infatti gli inviati dell’Onu finiscono per dichiarare che le elezioni devono essere rinviate, non ci sono le condizioni per svolgerle entro il 30 giugno: proprio come desiderano gli Stati uniti.

La risoluzione n° 1511 prevede che l’Iraq si doti di una nuova Costituzione, ma vista la decisione di rinviare al 2005 le elezioni, si decide che per ora l’Iraq abbia una Costituzione provvisoria, denominata Legge transitoria. Nel gennaio 2005 sarà eletta un’Assemblea nazionale che provvederà alla stesura della Costituzione definitiva, la quale sarà sottoposta a referendum popolare entro il 15 ottobre 2005, dopo di che si terranno le prime elezioni politiche: o almeno questo, a grandi linee, è il progetto ora messo in campo dagli occupanti. La Costituzione provvisoria è un testo di 64 articoli, predisposto dagli Stati uniti (in particolare dal consigliere costituzionalista di Bremer, Noah Feldman, likudnik e insegnante all’Università di New York), approvato l’8 marzo dal Consiglio governativo (obtorto collo e dopo due rinvii) su forte pressione di Paul Bremer, ma contestato subito dopo la firma dagli sciiti – anche da quelli rappresentati nel Consiglio – che vi riscontrano il tentativo Usa di ingabbiare entro uno schema prefissato la configurazione istituzionale dell’Iraq, presente e futura. La Costituzione provvisoria, infatti, delinea un Iraq federale su basi etniche, riconosce l’autonomia del Kurdistan e ne affida la sicurezza alle milizie peshmerga, e soprattutto dà alle tre province kurde (con un 10% della popolazione) il potere di veto sulla Costituzione definitiva, la quale quindi potrebbe anche non essere mai approvata. Attraverso gli alleati kurdi, insomma, gli Stati uniti si assicurano fin d’ora che non sarà varata una Costituzione definitiva a loro sgradita e che la tripartizione dell’Iraq sarà sempre garantita. Per quanto riguarda le altre norme, l’Islam è riconosciuto come religione di stato ed è una fonte del diritto – anche se non l’unica come vorrebbero gli sciiti – e non ci potranno essere leggi contrarie ai precetti dell’Islam; poi, una serie di buone intenzioni: le altre religioni sono tutelate; sono garantiti i diritti fondamentali dell’individuo, le libertà di pensiero, parola, culto e stampa; il futuro Parlamento avrà una quota obbligatoria femminile del 25%, c’è un vago appello all’uguaglianza dei sessi, ma senza alcun riferimento a temi scottanti come il divorzio o l’eredità. Facendosi portavoce del malcontento sciita, l’ayatollah al Sistani promuove una mobilitazione e una raccolta di firme per abolire la norma che dà ai kurdi il potere di interdizione sul processo costituzionale; inoltre il 22 marzo, in una lettera a Lakhdar Brahimi, diffida l’Onu dal riconoscere di fatto la Costituzione provvisoria "perché questo non sarebbe accettato dalla maggioranza del paese e avrebbe pericolose conseguenze". Nel frattempo gli Stati uniti manifestano l’intenzione di restare in Iraq non solo dopo il ‘passaggio dei poteri’ del 30 giugno 2004, ma anche dopo le elezioni del gennaio 2005 e oltre, fino a quando le forze di sicurezza irachene – come afferma il comandante delle truppe americane in Iraq Ricardo Sanchez – "non saranno all’altezza dei loro compiti". Secondo i piani statunitensi, sarà un generale statunitense (con un vice britannico) a comandare tutte le forze armate in Iraq, sia quelle Usa e alleate che le forze di sicurezza irachene: il nuovo governo iracheno non potrà quindi disporre delle forze armate del suo paese, che risponderanno invece al governo americano. Come rimarrà saldamente in mani americane la gestione dell’economia irachena.