Scomoda Jamahiriya. Berlusconi e il partito americano (m.m.c. – agosto 2010)

Fra qualche giorno, il 30 agosto, Muammar Gheddafi giungerà a Roma per celebrare il secondo anniversario del Trattato italo- libico, con una festa preceduta da un convegno sui rapporti fra i due paesi, cui parteciperanno storici arabi ed italiani.

Se l’opposizione italiana meritasse questo nome, commenterebbe positivamente l’evento e magari cercherebbe di arrogarsene, in parte, il merito. Magari ancora coglierebbe l’occasione per incalzare i due governi sul trattamento degradante riservato ai migranti africani in transito nei loro territori, invitandoli ad un anti colonialismo non retorico ed attualizzato. Appoggerebbe le iniziative libiche a sostegno della Palestina cercando di mettere in contraddizione il premier italiano. Ma figurarsi se questo può accadere in Italia, dove l’opposizione è più realista del re. I giornali di centrosinistra hanno preferito fare eco alle voci di un (indefinito, finora) affaire televisivo berlusconiano in Libia ed esternare la propria avversione, tout court, per il colonnello. Non sono abbastanza sinceri, i nostri oppositori, per palesare il vero motivo della loro antipatia: gli avvertimenti del padrone americano, espressi con notevole chiarezza dagli ambasciatori che si sono succeduti, Ronald Spogli e David Thorne (vedi in questa Rubrica Primato in piaggeria, settembre 2009). E’ stata più esplicita la componente critica della maggioranza, Futuro e libertà, che, in una nota di Carmelo Briguglio, ha invitato il primo ministro a dibattere in Parlamento, alla ripresa autunnale, le "anomale relazioni", i rapporti con Gheddafi e Putin "che preoccupano i nostri alleati".

Già, di questo di tratta naturalmente ed è bene essere smaliziati da scorgere la mano di via Veneto nelle tensioni che affliggono la maggioranza da mesi, come nella pubblicità riservata alle dichiarazioni, anche le più banali, di Gianfranco Fini, il più filoamericano e filosionista di tutti: come testimonia la sua opera, invero deleteria, nella veste di ministro degli Esteri in anni recentissimi.

Silvio Berlusconi, che non ha intenzione di farsi trascinare su questo terreno, ha risposto con il documento prodotto dal vertice di maggioranza in 5 punti, tutti di politica interna, sui quali più facilmente metterà in contraddizione i così detti finiani, che fin l’altro ieri li hanno tutti sottoscritti, votati e pure sponsorizzati (dalle politiche securitarie e restrittive dell’immigrazione fino al processo breve, da tutti votato a Palazzo Madama). Si allontana invece lo spettro delle elezioni anticipate, per la preoccupazione del rosicchiamento leghista sui voti del PdL e ancor più del comportamento che potrebbe tenere Giorgio Napolitano in caso di crisi. Preoccupazione fondata, sia per l’interpretazione che il presidente ha dato ripetutamente del dettato costituzionale circa i propri poteri, che prescinde del tutto dalle novità apportate dalla legge elettorale, sia per un recente viaggio di questi negli Usa, citato come incognita rischiosa dal foglio di famiglia "Il Giornale" come, con malcelata soddisfazione, dal rivale "Repubblica".

Su come il premier italiano affronta la contraddizione a monte, con Washington, la stampa è meno prodiga di informazioni che sul conflitto interno. Si è appreso di un lavorio diplomatico che ha coinvolto anche il capo dell’Eni, Paolo Scaroni, inviato a più riprese negli Usa per rassicurare gli americani su una presunta volontà di "diversificare" le fonti energetiche, come da essi richiesto, sottolineando altresì la parallela scelta di Parigi di agganciarsi al North Stream, la variante nordica del South Stream (anch’essa alternativa al Nabucco sponsorizzato dagli Usa) . Su questo punto, per altro, se è vero che il governo italiano ha influenzato in parte la scelta francese, come argomento per rabbonire Washington non sembra granché. Anzi.

Dal punto di vista più propriamente politico Berlusconi e Frattini sembrano riecheggiare ogni passaggio di Obama e del suo staff che suoni come volontà di pacificazione verso l’est, particolarmente verso Mosca, tendendo ad accreditarsi come interpreti genuini di tale volontà e fingendo di ignorare che si tratta di retorica – mentre per il governo italiano è politica concreta – ed inoltre che gli americani preferiscono i camerieri agli interpreti creativi delle loro direttive. Fin qui, dunque, la difesa di Berlusconi offre all’esigente alleato più fumo che altro.

L’arrosto è invece offerto sul fronte arabo- islamico con l’allineamento effettivo al contrasto del radicalismo islamico, alla guerra contro l’Afghanistan talebano, alle posizioni filo- sioniste ed anti iraniane, con conseguente spregio dei diritti dei popoli e degli Stati che, su quel fronte, si difendono dal colonialismo US- israeliano. Qui non si registrano contraddizioni fra Berlusconi e l’asse israelo- americano ed anzi l’intero quadro politico appare per la gran parte compatto nello stesso senso. Il filosofo Costanzo Preve, sul sito www.comunitarismo.it, ha scritto in proposito: "In Italia esiste una simulazione sionista che avviene mediante un gioco delle parti fra sionismo veltroniano illuminato (Gad Lerner) e sionismo berlusconiano e fallaciano (Fiamma Nirenstein). Si tratta di una simulazione complementare, che copre tutte le versioni ‘politicamente corrette ’ della legittimità del sionismo. Chi ne è al di fuori, ad esempio perché non intende riconoscere la legittimità storica del sionismo e lo considera un fenomeno colonialista, razzista ed imperialista, sarà automaticamente un ‘antisemita’ (se non è ebreo) oppure un ‘ebreo che odia se stesso ’ (se è ebreo)…". Le critiche che sono state rivolte a Preve su questo aspetto, anche da altri sinceri antimperialisti come Claudio Moffa ("Nessun gioco delle parti: è una vera e propria guerra anche sulla questione /che non è solo politica/ sionista", in www.claudiomoffa.it) non mi sembrano centrate, benché vada attribuito a questo studioso, fra gli altri meriti, quello di agitare da tempo la questione dei contrasti suscitati dalla politica estera italiana.

Ho osservato in una nota precedente (vedi Sottomissione totale a Israele, in questa Rubrica, dicembre 2009) che la soggezione al sionismo ed al suo Stato appare come la ‘carta di assicurazione’ giocata da Berlusconi sul piano internazionale. Lo è a tal punto da aver platealmente giustificato l’azione sterminatrice dei sionisti, durante il massacro di Gaza, ed aver sacrificato ai desiderata israeliani anche (cosa forse più importante, dal suo punto di vista aziendalistico, della vita delle persone) la contrattazione con l’Iran. Vi è stato qualche disaccordo, da quanto risulta non approdato ad un conflitto vero e proprio, quando Ehud Olmert ha fatto presente all’ "amico Silvio" che andava soppressa anche quella in corso, oltre a non rinnovarla per il futuro, con riferimento soprattutto al ruolo dell’Eni nei giacimenti iraniani.

Non abbiamo di fronte perciò un Moro né un novello Mattei, la cui politica suscitò contrasti più profondi, ma si potrebbe ravvisare nell’agire berlusconiano in politica estera qualche traccia fanfaniana (ossequio formale agli Usa ma più sostanziale al Vaticano che qualche autonomia da Washington, a quel tempo, se la permetteva), per ricordare un precedente bersaglio del trasversale partito americano, cui non basta l’ossequio formale e nemmeno la sottomissione incompleta, come fu nel caso di Fanfani. Bersaglio anch’esso in fine silurato, fortunatamente in modo meno tragico degli altri due.

E’ quindi reale lo scontro sulla politica estera italiana, che si rinnova in occasione del quarto invito al leader della Jamahirya libica. E su questo rapporto il presidente del Consiglio non ha neppure l’appoggio del suo principale alleato, la Lega nord, che, pur senza raggiungere il delirio del febbraio 2006, protesta per le dimensioni raggiunte dal pacchetto libico in Unicredit: "sembra una scalata", lamenta, urta i disegni bossiani sulle banche del nord e si aggiunge alla partecipazione consolidata in Banca di Roma- Capitalia. Smacco difficile da digerire per il partito xenofobo, con l’aggiunta delle indiscrezioni che vogliono il premier informato anticipatamente da Alessandro Profumo, quando la stessa Banca d’Italia ancora ignorava gli ultimi sviluppi dell’affaire. Sulla partita libica Berlusconi conta sull’appoggio di importanti gruppi imprenditoriali, oltre che bancari, però è politicamente accerchiato.

Ed è reale la mobilitazione del partito americano, in grado di attivare oppositori più o meno dichiarati, apparati statali eterodiretti, pezzi di estabilishment economico, organi di stampa. Ce n’è abbastanza per evitare di appoggiare gli attuali avversari di Silvio Berlusconi e le alternative delineatesi nel corso dell’estate, frutto di un gioco di potere sostanzialmente eterodiretto (le alternative credibili sono un’altra cosa). Un gioco che, se andasse a buon fine, farebbe cascare il nostro paese dalla padella nella brace, rendendolo ancora più sottomesso, politicamente ed economicamente marginale di quanto già non sia. Dopo aver citato Fanfani, il pensiero corre al "fanfascismo", campagna che impegnò allora una piccola parte della sinistra in un classico autogol. Oggi essa, o quel che ne resta, sembra tutta quanta intenta a rinverdirne i nefasti. In altre parole ancora, se va benissimo il contrasto alle leggi ad personam e ad altre scelte non condivisibili, non va bene invece lavorare per sostituire il "monarca" con una monarchia ancora più totalitaria ed oppressiva, elaborata oltre oceano, che lascia il solo spazio per dire "obbedisco".