Tahrir fra la prima vittoria e la legge marziale (mmc- febbraio 2011)

Nei giorni appena trascorsi il popolo rivoluzionario dell’Egitto ha festeggiato e rivendicato la caduta di Hosni Mubarak come la sua prima, importantissima vittoria, conseguita al prezzo doloroso di 300 giovani vittime e dopo una mobilitazione che ha coinvolto milioni di persone, la gran parte della società, come tanti rivoli confluenti in un grande, inarrestabile fiume. E’ stata la grandiosa ed ostinata pressione delle piazze, null’altro, a produrre l’evento perché fino al tardo pomeriggio dell’11 febbraio, quando è giunto l’annuncio ufficiale, il regime che si riconosceva nel Rais - insieme all’asse Us- israeliano suo proteggente- ha brigato e trigato per evitare o almeno rimandare questo importante risultato. Ancora il 10 febbraio, il Consiglio supremo delle Forze armate riunito in seduta permanente ha impiegato un’intera giornata per produrre il pateracchio secondo il quale Mubarak delegava i poteri all’ex capo dei servizi militari e suo vice dell’ultim’ora, Omar Suleiman, senza lasciare la carica presidenziale; ci sono voluti un’altra giornata e l’assedio ai palazzi del potere da parte della folla inferocita per indurre il regime a licenziare il suo volto più rappresentativo. Nemmeno possono considerarsi risolutive presunte "pressioni di Obama", che molti si ostinano a immaginare. Oltre alle innumerevoli dichiarazioni di sostegno a Mubarak del presidente e del dipartimento di Stato nei primi giorni dell’insurrezione, sempre il 10 febbraio, il presidente americano parlando dal Michigan ha dedicato quasi 500 parole alla situazione egiziana riuscendo nel miracolo di non pronunciare una sola volta il nome del Rais. Ed altrettanto eloquente è stato, la sera seguente, il ritardo di ore, circa cinque, nel commentare le dimissioni di Mubarak, con tanto di rinvio della annunciata conferenza stampa. Resistenza prolungata e significativa: fosse caduto il governo iraniano, o quello cubano, non ci sarebbero voluti che cinque minuti. Dunque, la caduta del Rais è dovuta esclusivamente alla rivoluzione popolare mentre gli Usa (seguiti a ruota dalle cancellerie europee) si sono adeguati solo quando non hanno potuto farne a meno. E si può scommettere che faranno di tutto e di più per ostacolare altre vittorie del popolo egiziano, destinatario di verbose complimentazioni ma di tristi fatti.

Come tutti sanno il nodo cruciale è adesso l’esercito, delegato a gestire la transizione. Fra gli altri commentatori Saverio Romano sul "Corriere della sera" del 13 febbraio, sotto il titolo significativo Curioso, esultiamo per un golpe militare, osserva che in palese violazione di una norma costituzionale il potere non è stato delegato in via provvisoria al presidente del Parlamento, bensì alle forze armate "cioè a un corpo che ha imposto i suoi uomini al vertice dello Stato, sostenuto Mubarak, largamente approfittato del regime, vissuto per molti anni dell’aiuto finanziario americano". Giusto, benché non mi pare tanto meravigliante che i "governi democratici abbiano accolto un golpe con soddisfazione": difatti i governi occidentali e segnatamente gli Usa, hanno non solo accolto con soddisfazione, ma appoggiato o costituito di propria iniziativa le più ripugnanti dittature del pianeta, arabe, africane, europee, asiatiche e latino- americane, e non solo come soluzione provvisoria. Se mai può meravigliare l’entusiasmo che questo passaggio ha creato nel popolo in lotta, esploso in boati di gioia autentica e prolungata in tutte le piazze egiziane ed arabe. E’ subito evidente che la gioia ha salutato non già tale passaggio di potere quanto le dimissioni del dittatore, prima e fondamentale rivendicazione della piazza. Ascoltando poi le voci di Tahrir, le interviste, i servizi degli inviati, una parola ricorrente in proposito è "compromesso". Diversi giovani hanno spiegato: non abbiamo altra scelta adesso, i soldati non ci hanno sparato addosso e quindi scegliamo di fidarci delle promesse di transizione; se non saranno mantenute, abbiamo sempre piazza Tahrir. Il giorno seguente, gli insorti hanno costituito un organismo di coordinamento che ha deciso di accettare parzialmente l’invito a rientrare nella normalità, mantenendo un presidio a Tahrir e l’impegno a riconvocare la piazza ogni venerdì. Ha inoltre avanzato la richiesta di un organismo prevalentemente civile, con un solo militare, deputato a dialogare con il popolo; insieme alle richieste di azzerare governo e parlamento, liberare subito i prigionieri politici, abrogare lo stato di emergenza perdurante da trent’anni, indire elezioni libere al più presto, senza rinviare a settembre. Contemporaneamente si sono intensificati gli scioperi, praticamente in tutti i settori cruciali - trasporti, sanità, stabilimenti siderurgici e tessili, comunicazioni - e gli organismi dei lavoratori in agitazione, che hanno scavalcato il vecchio sindacato, chiedono direttamente all’esercito incontri per discutere le proprie rivendicazioni. Non dimentichiamo difatti che la parola d’ordine, la molla della rivoluzione è stata "pane e libertà".

E’ ovvio che il Consiglio supremo delle forze armate intende accogliere il meno possibile di tali rivendicazioni. Destinatario di opposte pressioni, dell’oligarchia economica e dell’amministrazione americana da un lato, delle piazze dall’altro, probabilmente anche delle aspettative dei livelli inferiori che hanno fraternizzato nei giorni scorsi con i dimostranti, l’esercito è stato ed è una colonna portante del regime, tuttora finanziato dagli Usa con gran parte dei 2 miliardi e 800 milioni $ destinati annualmente all’Egitto. Che nei primi comunicati emessi si riscontrino contraddizioni, si rispecchi questo groviglio di opposti desideri ed aspettative non deve meravigliare perciò. Così, il massimo organo dell’esercito è passato dall’esternazione di ritenersi il protettore del popolo e delle sue "giuste rivendicazioni" alla promessa di "trasparenza" e di gestire in pochi mesi la transizione verso elezioni libere alla brutta risposta di ieri mattina, 13 febbraio, quando mezzi corazzati hanno sgomberato piazza Tahrir dal presidio rimasto e compiuto decine di arresti. Sempre ieri vi è stata la rassicurazione, senz’altro dettata da Usa- Israele, che l’Egitto rispetterà "i trattati regionali e internazionali", implicitamente alludendo agli accordi di Camp David del 1979. Infine il comunicato choc di oggi, 14 febbraio: il Consiglio supremo ha sciolto il Parlamento, ma non il governo che resterà in carica per gestire la ordinaria amministrazione; ha abrogato la Costituzione, demandandone la riscrittura ad una commissione, il cui operato sarà sottoposto a referendum; ha invitato gli egiziani a fermare gli scioperi, che non saranno tollerati in quanto apportatori di danno all’economia, garantendo al tempo stesso la libertà di manifestare pacificamente.

Tutto ciò è non è la promessa transizione trasparente verso libere elezioni ed un potere civile che dovrebbero concretizzare la democrazia formale. E’ legge marziale. Prima ancora, è un pasticcio spaventoso. Anzitutto, per aversi democrazia formale, le costituzioni non si abrogano finché non è approvata una nuova carta fondamentale da parte di un’assemblea costituente, non già di una commissione non meglio definita e magari nominata dalle stesse forze armate; ed un simile pastrocchio non si può sanare certamente da un successivo referendum della specie ‘prendere o lasciare ’. Secondo, il Parlamento essendo sciolto (agli egiziani pare non importare nulla di questo, perché si tratta dell’assemblea domestica di Mubarak, nata da elezioni- farsa), di organismo civile resta il solo governo, però senza poteri reali, perfino destinatario dei comunicati delle Forze armate al pari di qualunque cittadino che li apprende accendendo la tv o allacciandosi alla rete. Terzo, l’invito rivolto ai "nobili egiziani" a fermare gli scioperi sembra preludere a qualcosa di più drastico se non sarà accolto –mentre scrivo questa nota ancora non si sa- però si potrà manifestare. Però sul però, tutti restano assoggettati alle leggi emergenziali vigenti dal 1981 che consentono l’arresto senza il controllo della magistratura, senza motivazioni notificate all’interessato e senza diritto di difesa. Una legge marziale stravagante anche per tale, contraddittoria. Non parliamo dell’esercito che si fa garante degli accordi internazionali. Ma dove mai , e che vuol dire? A rigore di logica nulla, visto che i trattati valgono finché non vengono denunciati e non si vede chi potrebbe fare questo adesso. Vuol dire che per accontentare Us-Israele saranno ammesse alle elezioni solo le liste che professano fedeltà allo stato ebraico? O una minaccia anticipata, un tentativo alla cieca di ipotecare un futuro ancora imprevedibile?

Molti manifestanti continuano a festeggiare, altri sono perplessi, le forze di opposizione si dividono fra questi diversi atteggiamenti. Chi osserva da lontano si raccapezza difficilmente. Occorre dunque seguire giorno dopo giorno l’evolversi del "compromesso" raggiunto fra la piazza ed il regime, ascoltare le voci della prima e, dall’altra parte, tentare di capire che cosa bolle in pentola, anzi nelle pentole. Sono per noi più prevedibili le mosse di Usa- Israele, più arduo da decifrare il potere interno, l’oligarchia e soprattutto l’esercito egiziano. Solo i giovani protagonisti della rivoluzione possono sapere e dirci se e quanto possa pesare su quel corpo, o parti di esso, la lontana storia dei ‘Giovani ufficiali’ di Nasser, autori di un golpe che si trasformò in rivoluzione acclamata dal popolo e che poi degenerò nel suo opposto. Essi furono i nonni degli ufficiali attuali e però si è notato come diversi manifestanti recassero grandi ritratti di Nasser, e li sbandierassero accanto ai mezzi corazzati. Solo loro possono sapere quanto pesi l’anomalia delle forze armate egiziane, la loro diffusione capillare sul territorio, l’intreccio con tanti aspetti della vita civile altrove sconosciuti. In proposito questo soltanto mi sento di dire adesso: che la rilevata contraddittorietà delle decisioni prese, in questi primi giorni del dopo Mubarak, l’apparente annaspamento ed oscillazione fra opposti atteggiamenti è segno probabile di divisioni profonde all’interno delle forze armate, non tutte identificabili con gli alti comandi eterodiretti. E che queste lacerazioni sono anch’esse attribuibili alla rivoluzione in corso.