AL JAZEERA E LE RIVOLTE IN MEDIO ORIENTE (e.m. – agosto 2012)

 Al Jazeera (“La penisola”) nasce il 1 novembre 1996, voluta e finanziata personalmente dall’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa Al Thani. Nei progetti dell’emiro, il nuovo canale satellitare avrebbe dovuto presto divenire finanziariamente autosufficiente, ma questo non accade soprattutto per l’ostilità dell’Arabia Saudita, che monopolizza le concessionarie di pubblicità. Tuttavia al Jazeera è da subito un successo (dunque un successo personale anche dell’emiro che si accredita come un sovrano lungimirante, disinteressato e di larghe vedute). Garantisce infatti una copertura puntuale e immediata degli avvenimenti del Medio oriente, una informazione finalmente non censurata né manipolata, uno sforzo di obiettività notevole (“l’opinione, e l’opinione contraria” è il suo slogan). Inoltre, con i suoi collaboratori intelligenti e preparati – le donne sono numerose – si propone come espressione di una nuova società civile araba, di cui dà un’immagine dinamica e accattivante. Nel 1999 al Jazeera trasmette già su 24 ore; visto il crescente interesse mondiale, nel 2006 nasce la rete gemella in lingua inglese. Questo consente all’emittente di diventare una voce importantissima nell’informazione dal mondo arabo.
A poco più di due anni dalla sua nascita, il 16 dicembre 1998, al Jazeera segue con puntualità la prima guerra occidentale all’Iraq; e nel 2000 copre con cronache attente la seconda Intifada. Le sue trasmissioni finalmente forniscono al mondo una versione dei fatti non subalterna alla vulgata israelo- statunitense: il che suscita certo molti entusiasmi ma fa nascere anche irriducibili ostilità in Usa, Israele e nei loro alleati mediorientali. Il 7 ottobre 2001, due giorni dopo il primo attacco aereo all’Afghanistan, al Jazeera trasmette il primo comunicato di bin Laden, nel quale gli Usa sono indicati come i capi degli eserciti infedeli che hanno dichiarato guerra all’Islam. Il mese successivo gli Usa bombardano la sede dell’emittente a Kabul (con gli uffici della BBC e dell’Associated press). Nel 2003, subito dopo l’ invasione dell’Iraq, gli Stati uniti ribadiscono la loro devozione alla libertà di espressione bombardando la sede di al Jazeera a Baghdad (nell’attacco è ucciso un corrispondente giordano) contemporaneamente all’hotel Palestine in cui risiedono i giornalisti internazionali. Sempre nel 2003 i regimi arabi (Arabia Saudita in testa), che poco condividono le simpatie dei loro sudditi per al Jazeera,  tentano di boicottarla creando e finanziando con ingenti mezzi al Arabiya, che ne imita l’impostazione ma è – o dovrebbe essere – meno critica e più manovrabile politicamente. Tuttavia per reggere la concorrenza anche al Arabiya non può mostrarsi asservita alla visione politica dei suoi promotori. Le due emittenti panarabe divengono in breve leader nell’informazione mediorientale, soppiantando persino colossi come la Cnn e la Bbc. Esistono certo moltissimi canali satellitari concorrenti, ed alcuni hanno un discreto seguito, come al Manar (la tv di Hezbollah), o Palestina news, ma nessuna ha la copertura e gli ascolti delle due emittenti principali, segnatamente di al Jazeera. Nel 2004 il presidente statunitense G. W. Bush  accusa al Jazeera di fomentare l’odio antiamericano, trasmettendo propaganda qaedista e non provvedendo a censurare le notizie provenienti dai fronti afghano e iracheno.

Nel 2008, durante Piombo fuso, l’attacco portato da Israele a Gaza, al Jazeera é l’unica emittente ad avere corrispondenti nella zona di guerra (Israele ha chiuso infatti tutti i collegamenti con la Striscia) e ne fornisce le immagini a tutto il mondo. L’emittente é all’apice del successo, degli ascolti, della rilevanza internazionale; copre un’area geografica che va dall’Africa araba all’Indonesia.

Il successo e la rilevanza internazionale di Al Jazeera sono determinanti per il successo e la rilevanza internazionale del Qatar e del suo emiro. Certo il Qatar, grazie al petrolio, é uno dei paesi più ricchi del mondo; investe moltissimo nell’educazione e nelle nuove tecnologie; si colloca tra i paesi che hanno il più elevato tasso di crescita del Pil. Ma la creazione e il successo mondiale di al Jazeera contribuiscono in maniera determinante a rafforzare l’immagine internazionale del Qatar, trasformando il piccolo emirato petrolifero in “un pigmeo dal pugno di un gigante” (secondo la definizione dell’Economist), dandogli un ruolo di primo piano pressoché impensabile solo pochi anni prima.

Emblematica di questa accresciuta rilevanza è l’opera di mediazione internazionale, guidata dall’emiro Hamad bin Khalifa al Thani, tra le discordi fazioni libanesi, che si conclude con l’elezione alla presidenza del Libano del generale cristiano maronita Michel Suleiman il 25 maggio 2008. L’elezione di Suleiman, che pone fine a 18 mesi di stallo, è la soluzione caldeggiata dall’emiro del Qatar. Appagati dall’importante servizio che al Jazeera svolge, pochissimi dei suoi fruitori si soffermano a pensare che l’emittente potrà presto o tardi diventare uno strumento della politica e delle ambizioni dell’emiro, che il Qatar non è il paradiso della libertà di pensiero e di espressione ma una monarchia assoluta la quale per altro – particolare non irrilevante –  ospita una importante base militare statunitense; che, dunque, tutto ciò prima o poi finirà per influire sulla qualità dell’informazione resa dall’emittente qatariota.

Le prime incrinature dell’immagine internazionale di al Jazeera si verificano nel dicembre 2010 quando, dal multiforme coacervo dei cablo diffusi da Wikileaks, ne emergono alcuni relativi proprio all’emittente, relativi alle sue prese di posizione troppo adagiate sulla politica del Qatar e, ancor peggio, ad impegni presi dalla sua dirigenza per passare sotto silenzio notizie la cui diffusione avrebbe danneggiato gli Stati uniti. In un cablo, Wadah Khanfar, direttore della rete, è indicato come responsabile dell’occultamento di materiale relativo alla morte di donne e bambini causata da operazioni Usa in Medio oriente. Sempre secondo altri cablo provenienti da sedi diplomatiche, Khanfar avrebbe collaborato con la Dia (Defence intelligence agency) americana per rendere più accettabile l’immagine degli Stati uniti nei paesi arabi. La diffusione di queste notizie costringe Khanfar alle dimissioni, ma la credibilità di al Jazeera riceve un primo, fortissimo colpo.

Sono gli avvenimenti mediorientali degli ultimi due anni – le cosiddette primavere arabe – e la copertura a dir poco sbilanciata che al Jazeera ne dà, a compromettere definitivamente l’immagine di obiettività e indipendenza che l’emittente qatariota amava dare di sé. Al Jazeera ha sempre avuto un occhio di riguardo per i Fratelli musulmani e l’Islam sunnita, la sua copertura degli accadimenti egiziani è totale, persino ridondante, implica grande dispendio di mezzi e telecamere sempre accese in piazza Tahrir. Anche la “primavera” tunisina è seguita in modo completo e soddisfacente.

Nel trattare gli avvenimenti libici, invece, al Jazeera si caratterizza progressivamente per un sempre maggiore sostegno dato ai rivoltosi contrari al regime di Gheddafi, al punto da inventarsi falsi scoop (le presunte “fosse comuni” alla periferia di Tripoli non sono nient’altro che un vecchio cimitero non più in uso). L’auspicio di un intervento internazionale e, successivamente, l’appoggio acritico all’intervento della Nato determinano, per al Jazeera, la perdita di un numero non indifferente di ascoltatori. Dietro le posizioni dell’emittente, ovviamente, c’è il Qatar, che fornisce alle varie fazioni combattenti armi, denaro e supporto logistico, tanto che lo stesso governo di transizione libico invita l’emirato a non agire più in questo senso, senza un previo coordinamento con le nuove autorità.

Riduttiva e timida, invece, è l’informazione di al Jazeera circa gli avvenimenti in Bahrein. Nel piccolo emirato, retto da una monarchia sunnita attualmente impersonata dall’emiro Hamad bin Isa Al Khalifa, la protesta inizia il 14 febbraio 2011 con l’occupazione di piazza della Perla. I manifestanti chiedono riforme costituzionali che limitino lo strapotere della monarchia, l’elezione diretta del capo del governo, il riconoscimento di diritti umani fondamentali quali la libertà di espressione e di associazione. La protesta è di massa, coinvolge la maggior parte della popolazione ( che è al 70% sciita; all’inizio anche la minoranza sunnita simpatizza con i manifestanti, finché la disinformazione creata ad arte da governo, polizia e servizi riesce a mettere gli uni contro gli altri, secondo un copione ben noto). Le manifestazioni vedono il coinvolgimento delle moschee da un lato, dall’altro dei sindacati dei lavoratori e non si esauriscono nonostante una repressione particolarmente feroce e pervasiva. Dall’Arabia Saudita giungono blindati e camion di truppe che partecipano agli sgomberi, presidiano i ministeri, l’aeroporto, gli insediamenti industriali e commerciali. Per tutto l’anno nell’emirato si susseguono arresti di massa; le torture e le violazioni dei diritti umani dei prigionieri sono all’ordine del giorno. Centinaia di attivisti sono anche licenziati. Nel frattempo il governo orchestra una campagna contro l’Iran, accusandolo di fomentare la protesta per preparare una insurrezione armata; numerose squadracce attaccano gli immigrati, l’università, la stampa, le tv e la polizia attribuisce queste violenze agli attivisti sciiti, nonostante le loro smentite. Anche Twitter viene bloccato. A maggio 2012 gli Stati uniti vendono al Bahrein armamenti per 53 milioni $, in violazione dell’Arms export control act del 1976 (che vieta la vendita di armi a regimi oppressivi o palesemente violenti). La fornitura, congelata l’anno precedente dall’amministrazione Obama, ora riprende per decisione governativa che non  coinvolge il congresso; l’annuncio è dato nel corso di una visita a Washington del principe ereditario bahreinita. Ma nulla di tutto questo vede al Jazeera: forse per la vicinanza geografica, forse per le somiglianze di struttura politica ed economico sociale tra Qatar e Bahrein, l’emittente preferisce ridurre gli eventi barheiniti ad una protesta minoritaria sciita sobillata dall’Iran. A causa di ciò il giornalista tunisino Ghassan bin Jeddo,  giornalista di punta e capo dell’ufficio di al  Jazeera in Libano, rassegna le sue dimissioni nell’aprile del 2011, motivandole con la parzialità dell’azienda. Quasi tutti i media internazionali – e nostrani – che altre volte avevano almeno fatto riferimento alla informazione di al Jazeera per dovere di cronaca, ignorano anch’essi la massiccia e coraggiosa protesta popolare in Bahrein. L’eco di quanto accade, così, trapela solo in occasione del Gran premio di Formula uno, svoltosi nell’emirato il 22 aprile 2012. Congelato l’anno precedente e ora fortemente voluto dall’emiro come segnale di ritrovata normalità, costituisce in realtà una insperata vetrina per i manifestanti, che possono attirare l’attenzione dei tanti giornalisti e della comunità internazionale su quanto accade nel paese.

 Identica, cioè quasi nulla, è l’attenzione che al Jazeera rivolge alle manifestazioni in Arabia Saudita. Qui le proteste iniziano a marzo 2011, sull’onda delle proteste in Bahrein e della loro feroce repressione cui tanto contribuisce l’Arabia Saudita stessa. E’ la componente sciita della popolazione, discriminata e oppressa, a ribellarsi. La repressione è immediata: le retate si susseguono per tutta l’estate, i leader della protesta e molti attivisti sono incarcerati. Le manifestazioni per chiedere la liberazione dei prigionieri politici vedono la morte di diversi dimostranti per mano della polizia (che si dice “aggredita” mentre i manifestanti sostengono l’esatto contrario). Al Jazeera tace su queste vicende, o le travisa: quando tra il 20 e il 21 novembre 2011 due ragazzi sciiti sono uccisi dalla polizia e questa si rifiuta di restituirne i corpi alle famiglie, l’emittente del Qatar è bensì l’unica a riferire il fatto, ma lo inquadra nell’ambito di manifestazioni fomentate da forze straniere (leggi Iran), giustificando in tal modo la risposta della polizia: lo stesso ritornello già sentito a proposito del Bahrein.

 Insufficiente e acritica è anche l’informazione che al Jazeera dà sugli avvenimenti dello Yemen. Lo Yemen è un paese poverissimo, caratterizzato da disuguaglianze sociali fortissime e da una struttura economica arretrata e iniqua, con focolai di forte tensione sia al nord che al sud; è retto da un regime autoritario e familista, foraggiato dagli Stati uniti e dall’Arabia Saudita; l’opposizione è debole e divisa. La scintilla che appicca l’incendio è la notizia, diffusa il 27 gennaio 2011, che dopo 33 anni di regime il presidente Ali Abdallah Saleh ha designato come successore suo figlio, il quale attualmente è a capo della tristemente famosa guardia repubblicana. Il presidente Saleh riesce a restare in sella ancora qualche tempo grazie ai suoi sponsor – finanziatori, mentre l’eterogenea opposizione cavalca la generosa protesta popolare snaturandone spesso gli obiettivi iniziali, essenzialmente tendenti a una maggiore equità sociale ed economica, oltre che a una maggiore libertà. La soluzione che finalmente Saleh si rassegna ad accettare è la cosiddetta “iniziativa del Golfo”, una road map predisposta dai paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) e appoggiata da Usa e Onu. Essa prevede l’immunità per Saleh, il passaggio del potere entro 30 giorni al vice presidente Abd Rabuh Mansur Hadi (che ha fiancheggiato Saleh per ben 17 anni), l’impegno di quest’ultimo a formare un governo di unità nazionale che comprenda anche i partiti dell’opposizione, elezioni presidenziali entro novanta giorni. I manifestanti osteggiano l’iniziativa del Golfo, che garantisce un’assoluta continuità di regime, ma la road map segue il suo corso. Le elezioni si svolgono il 21 febbraio 2012 e prevedibilmente viene eletto – con il 98% delle preferenze – proprio Hadi: è, infatti, l’unico candidato e la scheda non consente l’espressione di un voto negativo; né si conosce, in mancanza di registri elettorali, il numero degli aventi diritto al voto che, disgustati, sono rimasti a casa. Hadi tuttavia non è una figura forte, non è legato a nessuna confederazione tribale importante, non ha una sua milizia; dietro il suo schermo, il vero potere decisionale è esercitato dall’ambasciatore statunitense Gerald Feierstein. Anche la famiglia dell’ex presidente non si allontana troppo dalle stanze del potere: il figlio è tuttora a capo della guardia repubblicana, un fratello è capo delle forze aeree, un nipote guida i servizi di sicurezza, un altro nipote controlla la guardia presidenziale. Contro questa soluzione imposta da CCG e Usa, una soluzione invisa alla popolazione yemenita che è scesa in piazza per mesi e che conta numerosi morti, al Jazeera non avanza la minima critica. Ed è forse –  tristemente –  ovvio, dato che il Qatar è in prima fila tra i paesi del Golfo promotori dell’iniziativa. E, pare, promotore anche di un progetto più ambizioso che, coinvolgendo il CCG, tende ad allargare l’influenza dei paesi della penisola arabica in tutta l’area mediorientale.

 L’informazione di al Jazeera sulla rivolta in Siria parte con due settimane di ritardo. Forse perché, in un passato ancora assai recente, Siria e Qatar erano in buoni rapporti politici ed economici, e al Jazeera aveva un ufficio a Damasco. Fatto sta che dei primi focolai della rivolta, a Dar’a nel marzo 2011, l’emittente non parla. Poi la rivolta si estende, pur senza coinvolgere ancora la capitale, il governo cerca di reprimerla e nel contempo caccia dal paese i giornalisti internazionali. Al Jazeera inizia a dare copertura agli avvenimenti siriani, ricorre a materiale amatoriale e facendo proprio esclusivamente il punto di vista dei rivoltosi. Una corrispondente di al Jazeera, Dorothy Parvaz, giunta in Siria il 29 aprile 2011, è sequestrata e sarà rilasciata il successivo 18 maggio all’aeroporto di Doha dalla autorità iraniane. Da questo momento al Jazeera non perde occasione per scagliarsi ancora di più contro il regime siriano: il caos della Libia post Gheddafi, la sua instabilità, le sue carneficine sono bellamente ignorati, solo la Siria occupa le menti e il video. Passano sotto silenzio le aperture di Bashar Assad nel tentativo di venire incontro ad alcune richieste degli oppositori (il regime permette internet senza restrizione alla società civile, concede la nazionalità siriana a 200.000 kurdi apolidi; mentre la norma costituzionale che assegnava tutto il potere al partito Baath é superata dal referendum del 26 febbraio 2012 ed ora in Siria vige il multipartitismo). Come in Libia, dietro ad al Jazeera c’è il Qatar, con la sua aggressiva politica interventista e l’aiuto diretto alle forze combattenti. Vari giornalisti si dimettono, in segno di protesta contro la conduzione sbilanciata della rete, che a loro parere copre gli avvenimenti siriani ignorando consapevolmente e sistematicamente fatti e materiale politicamente sgraditi. Dall’ufficio di Beirut si dimettono Mousa Ahmed e Ali Hashem (quest’ultimo dopo che l’emittente si rifiuta di mandare in onda foto da lui stesso scattate, che mostrano mercenari mentre si scontrano con l’esercito regolare); dall’ufficio di Teheran si dimette Melhem Rayya. Ancora una volta i media internazionali seguono acriticamente, in maggioranza, la linea di al Jazeera.

Le rivolte in Medio oriente ridisegnano equilibri anche consolidati, cambiano il panorama delle alleanze; l’abbattimento dei vecchi regimi legati a doppio filo all’Occidente (come in Tunisia, Egitto, Yemen) pone alla classe dirigente e ai centri di potere reali di questi paesi il problema di come mantenersi tali; i supporter interni dei vecchi regimi si preparano a prenderne il posto, o comunque a non allontanarsi troppo dal potere politico. L’Occidente e i suoi satelliti regionali, dal canto loro, se talora sfruttano le proteste popolari per una definitiva liquidazione di personaggi considerati scomodi o inaffidabili (come in Libia), sono sempre comunque pronti a indirizzarle ai propri scopi e, nell’ipotesi peggiore, a prevenire o limitare quegli effetti del cambiamento che giudicano contrari ai propri interessi. Al Jazeera è diventata una delle pedine di questo gioco, scontando un offuscamento gravissimo della propria credibilità. Pare che l’emittente, nell’ultimo anno, abbia perso 13 milioni di spettatori.

Con l’intento dichiarato di recuperare lo spirito originario dell’emittente qatariota e per raccontare in modo diverso quello che sta succedendo in Medio oriente, alcuni noti giornalisti dimissionari da al Jazeera (Ghassan bin Jeddo, Sami Kleib, Zahi Wahbee) l’11 giugno 2012 danno l’avvio ad un nuovo canale satellitare panarabo che garantiscono “libero e indipendente”: al Mayadeen (la pubblica piazza). La nuova emittente ha sede a Beirut, in Libano, si avvale di 500 giornalisti, il suo slogan è “la realtà tale quale è”. Gli attuali media, secondo Kleib, non solo hanno problemi di credibilità, ma con la loro politicizzazione fomentano la guerra,  sono “media assassini”; al Mayadeen invece si prefigge di realizzare programmi che spingano al dialogo e allo scambio, di creare una piattaforma per tutte le parti in causa, di puntare all’approfondimento. Senza mai dimenticare la questione regionale basilare: la irrisolta questione palestinese.

Il quotidiano libanese di lingua francese “L’Orient- Le jour” riporta “voci ricorrenti” sul finanziamento della nuova emittente, che proverrebbe in parte dall’Iran e in parte dal noto uomo d’affari siriano (e cugino di Bashar Assad) Rami Makhlouf; voci che, per la verità, non sono confermate. Al momento, gli ascolti sembrano premiare il progetto.