Embargo a Gaza, Fiera a Torino (di Emilia M. maggio 2008)

Il 10 maggio 2008, il comitato “Gaza vivrà” ha indetto a Torino un’assemblea intitolata “La parola a Gaza”. L’assemblea, che segue una lunga campagna di mobilitazione contro l’embargo genocida a Gaza, ha offerto analisi e testimonianze dirette del disastro umanitario che ha investito Gaza; naturalmente il tema centrale dell’embargo si è intrecciato a quello del boicottaggio della Fiera del Libro, in corso nello stesso periodo a Torino. La Fondazione Cipriani ha aderito e partecipato all’assemblea, condividendone tematiche e impostazione.

Lo strangolamento di Gaza si fa sempre più stringente, ed è persino riduttivo chiamarlo embargo: riguarda infatti la totalità dei beni e servizi, con pochissime eccezioni, in assoluto contrasto con le norme internazionali. A Gaza manca l’acqua, il cibo, i medicinali, l’elettricità, il carburante. Sono bloccati i trasporti, i depuratori, le ambulanze, gli ospedali, le scuole, le attività produttive e commerciali. In un assedio senza quartiere, i beni destinati a Gaza si fermano in Israele, spesso vengono rubati, ma Israele pretende oltretutto il pagamento del deposito. In questo già tragico contesto, i raid israeliani provocano quotidianamente morti (e feriti che non possono essere curati). Un milione e mezzo di persone sono punite atrocemente e collettivamente per avere, in elezioni libere e corrette, premiato una forza politica non gradita ad Israele e al suo sponsor Usa, ma soprattutto per non aver accettato il golpe che ha rovesciato il governo legittimo della Palestina per sostituirlo con uno addomesticato.

Il golpe di Abu Mazen non è che un esempio di come Israele, per vanificare le legittime aspirazioni dei palestinesi, non esiti a corrompere le coscienze di leader deboli, opportunisti, o ancor peggio assetati di potere. Così come ha reso impraticabile il sogno di uno stato palestinese con la continua espansione coloniale che interrompe la continuità territoriale, incamera risorse, divide i palestinesi anche fisicamente.

Israele è spesso definito come uno “stato democratico”, addirittura come “l’unica democrazia del Medio oriente”. Ma quale può essere la “democraticità” di uno stato che si autodefinisce (ed è definito dalla risoluzione 181 Onu) come uno stato etnico? Israele la evidenzia ampiamente con il trattamento riservato agli arabi israeliani, cittadini di serie B. Lo stesso Israele, per altro, non si fa remore a perseguitare e ridurre al silenzio anche i cittadini ebrei, qualora denuncino magagne, crimini o inconfessabili segreti del loro stato. Ricordiamo al proposito il calvario di Mordechai Vanunu,  che dopo aver svelato nel 1986 il piano segreto di armamento nucleare israeliano, è stato sequestrato a Roma dal Mossad,  ha scontato 18 anni di carcere di cui 11 in isolamento, é stato scarcerato nel 2004 con pesantissime restrizioni alla libertà personale (non può avere telefono cellulare, accesso a Internet, contatti con stranieri, non può uscire da Israele né avvicinarsi ad ambasciate e consolati stranieri e nel 2007 è stato condannato a 6 mesi per aver tentato di recarsi in Cisgiordania). Ricordiamo che Ilan Pappe ha pagato la sua obiettività di storico con persecuzioni e minacce che lo hanno costretto ad abbandonare la sua cattedra all’università di Haifa e a riparare in Inghilterra.

Il “democratico” Israele (al pari dei “democratici” Usa) in politica estera ha sempre sostenuto e foraggiato le forze più retrive e i peggiori regimi, dai Duvalier ad Haiti, al Sudafrica dell’apartheid, alle dittature in Guatemala e Honduras, senza dimenticare il sostegno dato ai contras in Nicaragua; tuttora fiancheggia militarmente, con un contributo rilevante, Uribe in Colombia.

Ricordiamo che l’accordo di cooperazione militare tra Italia e Israele, fortemente voluto dai governi Berlusconi e Prodi, rende il nostro paese sempre più complice delle quotidiane uccisioni di palestinesi e delle sciagurate scelte belliciste del governo israeliano: è sacrosanto quindi rimarcare con ogni mezzo il nostro profondo disaccordo. Anche con il boicottaggio ad una Fiera del libro che celebra i 60 anni dallo nascita dello stato di Israele, fingendo di ignorare che tale nascita si è parallelamente sostanziata in un piano di spoliazione del popolo palestinese attuato con massacri, violenze, distruzioni e con la cacciata di 700.000 palestinesi.

Il rapporto dei vari governi israeliani con la cultura è sempre stato un po’ particolare. Il primo obiettivo della vendetta israeliana dopo i fatti di Monaco, il primo nella lista delle esecuzioni approvata da Golda Meir fu il palestinese Wael Zwaiter, ucciso a Roma dal Mossad il 16 ottobre 1972: letterato e poeta, Zwaiter risiedeva in Italia da 16 anni e aveva tradotto in italiano “Le mille e una notte”. Qualche mese prima, l’8 luglio 1972, per vendicare un attentato compiuto in Israele e attribuito al Fronte popolare di liberazione della Palestina, il Mossad fece esplodere a Beirut l’auto in cui si trovava, con la nipote sedicenne, Ghassan Kanafani, giornalista e scrittore palestinese, all’epoca portavoce dello stesso Fronte popolare. Il 1 giugno 1981, a Bruxelles,  fu ucciso Naim Khader, all’epoca rappresentante dell’Olp presso la Cee: scrittore e uomo di pace, sognava uno stato palestinese libero, la coesistenza, il rispetto reciproco.

Il boicottaggio alla Fiera del libro non è stato, come qualcuno ha detto, la strumentalizzazione politica di un evento culturale, ma una giustificata reazione alla scelta tutta politica di offrire una vetrina a Israele proprio nel momento in cui si macchia di uno dei suoi crimini peggiori, l’embargo a Gaza. Si sono levati alti lai, perché il boicottaggio avrebbe coinvolto scrittori “pacifisti” come Grossman, Oz, Yehoshua, tanto pacifisti da essere stati tutti e tre favorevoli all’attacco israeliano del 2007 al Libano (e l’ultimo di essi, fautore tra l’altro del muro di Sharon, ha recentemente dichiarato alla stampa che non vorrebbe mai un arabo come vicino di casa). Comunque, ripetiamo, la protesta non è contro la cultura israeliana, ma contro l’operazione propagandistica che – questa sì – la strumentalizza. Un’operazione proposta (o pretesa?) dal governo israeliano, il quale ha anche scelto gli scrittori da inviare a Torino, dietro un loro impegno a non criticare la politica israeliana. Al governo israeliano la cultura interessa solo come fiore all’occhiello e solo se asservita. Il boicottaggio della Fiera del libro è stato invece appoggiato e propagandato dagli intellettuali e scrittori israeliani più consapevoli e indipendenti dal potere, ad es. Benny Ziffer e Jamil Ilal (quest’ultimo, dato erroneamente per presente alla Fiera, ha smentito: “non parteciperei mai a un evento che legittima l’occupazione coloniale di Israele e lo strangolamento dei palestinesi della Striscia di Gaza, in un’occasione che segna la sottrazione della terra e la pulizia etnica contro il popolo palestinese”).

Rimarchiamo una coincidenza: quest’anno compie 60 anni anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Non c’è gran che da celebrare: essa infatti è violata tranquillamente e quotidianamente da Israele in tutti i suoi 30 articoli, nessuno escluso.