Una
rottura annunciata (estate
2007)
Molto si dice, si scrive, sulla tragica spaccatura
del popolo palestinese e delle sue precarie istituzioni, sottolineandosi per lo
più la battuta d’arresto, o la fine, del sogno nazionale palestinese.
Raramente però si ammette che
tutto ciò è in primo luogo il risultato delle macchinazioni israeliane ed
occidentali. Eppure da molto tempo, da prima della morte di Yasser Arafat,
queste si dispiegano con solerte e funesta efficacia, con il fine di circuire,
infiltrare ed infine corrompere la dirigenza del Fatah per sottometterla.
Denaro, promesse, armi fornite massicciamente, all’unico scopo si schiacciare
la forza oggi di gran lunga più rappresentativa della popolazione, Hamas. Il
movimento islamico ha risposto per mesi in modo più che responsabile,
perseguendo invece la finalità del governo di unità nazionale e
dell’inquadramento unitario delle milizie, compresa la propria. Ma non poteva
naturalmente che difendersi dalla pretesa di Abu Mazen e del suo entourage di
controllare tutto l’apparato di sicurezza, pesantemente infiltrato da Israele
e capeggiato dal corrotto Dahlan, apparato che regolarmente forniva agli
occupanti notizie utili alla sua politica omicidiaria; dalla pretesa poi di
rovesciare il governo legittimo a suon di mitragliate. Che avrebbero mai dovuto
fare, farsi massacrare tutti?
Senza pudore alcuno si rovesciano le parti,
spacciando per legittimi rappresentanti i corrotti ed i golpisti, per abusivi
occupanti coloro che hanno difeso se stessi e la popolazione dall’occupazione
militare, dalla pulizia etnica, dai furti di terra, dai complotti, dal ricatto
per fame, rifiutando l’aberrante richiesta di riconoscere unilateralmente il
feroce occupante e sottomettersi ad esso. Credo che in Italia soltanto “Il
Manifesto” abbia pubblicato la lettera inviata da Mohammed Dahlan, nel luglio
2003, al ministro della Difesa israeliano Saul Mofaz nella quale l’aspirante
golpista lo informa, in modo servile, dei progressi nel disegno di rovesciare
Arafat e la leadership palestinese per sostituirla con una collaborazionista,
dei “tentativi di polarizzare le opinioni dei membri del consiglio tramite
intimidazioni e tentazioni così che essi siano al nostro fianco e non al suo”
dicendosi “certo che i giorni di Yasser Arafat sono contati” benché
chieda “permetteteci di finirlo alla nostra maniera e non alla vostra”.
Pochi mesi dopo, il leader che impersonificava la lotta palestinese moriva in
modo più che sospetto. E’ questa specie di delinquenti politici che
l’occidente, Usa ed Europa, appoggia a spada tratta, nel senso reale e non
metaforico. Delinquenti oltretutto vigliacchi che, a dispetto della superiorità
militare dovuta ai generosi foraggiamenti ricevuti, si sono squagliati come neve
al sole alla risposta di Hamas. Spariti per rispuntare, ovviamente e purtroppo.
Ora Israele è riuscita nell’intento, tenacemente
perseguito, di avere un quisling sottomesso al disegno del bantustan
palestinese, o dei bantustan senza continuità territoriale, senza difesa, senza
sovranità, collaborante nella repressione della resistenza e nel ricatto per
fame verso chi non si assoggetta, a partire dal movimento islamico.
Non meraviglia dunque che fra i palestinesi ed i
sostenitori della loro causa si riaffacci quel disegno, a lungo accarezzato nel
mondo arabo ma accantonato dai palestinesi al tempo di Arafat, dello stato
unitario, laico e multietnico, in luogo di quello dei due stati divisi dalla
frontiera del 1948: obiettivo quest’ultimo via via infrantosi, a partire dalla
beffa di Oslo, contro l’aggressività, le continue confische israeliane, il
muro che annette e cambia i confini; contro l’appoggio occidentale, ormai
senza incrinature, al regime sionista; ed infine, tragica goccia traboccante,
contro la rottura palestinese. I sostenitori dei due stati etnici obiettano che
anche lo stato unico è utopico, che fu abbandonato perché tale, rilevano la
inverosimiglianza che dopo sessant’anni di pulizia etnica e di risposte,
spesso violente, palestinesi ed ebrei vivano fianco a fianco in armonia, quando
guerre civili e scontri interetnici meno duraturi faticano ad essere dimenticati
dopo generazioni; osservano che ben difficilmente i palestinesi potrebbero
essere ammessi, sia pure come cittadini di serie b, nello stato ebraico, del
quale il sionismo è ideologia ufficiale e fondante, condiviso dalla maggioranza
di quel popolo, con la sua tragica carica di aggressività nazionalista e odio
verso chi ebreo non è. Come fare a superare quel muro, ad unirsi agli altri
arabi, cittadini di serie b, residenti da decenni in Israele? Gli altri
replicano proponendo l’esempio del Sudafrica dove il regime dell’apartheid
è stato sconfitto, sia pure dopo una lunghissima lotta, dalla tenacia della
maggioranza nera. Non potrebbero i palestinesi, non maggioranza ma buona metà
della popolazione, affrontare una lunga lotta per i diritti umani e civili,
contro un regime assai simile, e vincerla?
Non pare un caso che l’obiettivo dell’unico stato
israelo- palestinese sia sostenuto da tempo dall’Iran e, oggi, anche da quella
intellettualità ebraica (Ilan Pappe, ed altri, in un recente convegno a Madrid)
rimasta nemica del regime israeliano e da esso perseguitata, comprensibilmente
desiderosa di superare la solitudine con un massiccio ingresso palestinese
dentro i confini, per condurre con il ‘nemico’ una battaglia politica
finalizzata a minare la solidità ed il consenso dell’estabilishment. Che
quest’ultimo sia terrorizzato dalla prospettiva è evidente dall’ossessione
della crescita demografica palestinese e dalle accuse di tradimento ed
antisemitismo che fioccano su chiunque osi riaffacciare il discorso. Ciò
stesso, per chi ha tutt’altra prospettiva, lo rende interessante. Chissà, forse proprio questo terrore frena
Israele dal realizzare l’assalto finale di Gaza già progettato, preferendo ad
ora continuare nei raid punitivi, distruttivi e feroci ma limitati.
Interessante è, allo stesso modo, l’avversione che
l’obiettivo dell’unico stato incontra nel Quartetto. Un rapporto,
anch’esso non pubblicizzato, scritto nel maggio dall’inviato speciale
dell’Onu, Alvaro de Soto, ha osservato in proposito che il boicottaggio internazionale contro i palestinesi,
deciso dopo la vittoria elettorale di Hamas, ha “di fatto trasformato il
Quartetto da un gruppo che doveva promuovere il negoziato sulla base di un
documento condiviso in un organismo impositore di sanzioni contro il governo
liberamente eletto di un popolo sotto occupazione e imposto al dialogo
precondizioni irraggiungibili”, come soprattutto il riconoscimento
dell’occupante, diventando con ciò stesso un “evento secondario…/e/, di
fatto se non de jure, più un gruppo di amici degli Stati uniti che altro”.
Ora, il fatto che il “gruppo di amici degli Stati uniti” continui a
perseguire – forse anzi con maggiore determinazione proprio dalla spaccatura
palestinese- l’obiettivo delle enclave, ipocritamente definite ‘stato’,
converge nel far pensare che la strategia palestinese va, forse, radicalmente
cambiata.
Nei prossimi mesi Hamas sperimenterà la sua enclave
resistente, alle prese con la fame, la sete, i ricatti e la politica omicida
israeliana, Fatah sperimenterà la propria enclave sottomessa nei centri della
Cisgiordania dove governa per modo di dire, alle prese con le promesse mai
realizzate dell’occupante. Per un bel po’ i due destini non si ricomporranno
e resta l’incognita, pesante come tutta la storia della Palestina, della
‘soluzione finale’ a Gaza che molti sionisti agognano. Il padre di tutti i
problemi resta il regime che imperversa in Israele ed il forte consenso di cui
gode, sia presso gli stati dominanti sia presso gli ebrei, israeliani e non.
E’ ovvio che il nodo palestinese si può sbrogliare solo sconfiggendo
politicamente il sionismo, senza di che ognuna delle strategie perseguite dai
palestinesi resterà pura alchimia.