Yemen, il conflitto che appare e scompare (m.m.c.- gennaio 2010)
Da anni il traballante governo di Sana’a si è messo in
vendita e, per il prezzo di 67 milioni $ in moneta 2009 - sembra raddoppiati
nell’anno appena cominciato - è stato acquistato dagli Usa. I quali, insieme
al governo, si sono comprati la licenza di usare il territorio yemenita per
dedicarsi alla loro attività preferita, massacrare gente, con la solita
motivazione della “lotta al terrorismo”. Non desiderando però
l’amministrazione statunitense apparire in prima persona, è stata ammessa
finora una limitata attività di “assistenza militare” ed i raid figuravano
condotti dalle forze governative di Abdallah Saleh, sostenute nel nord
dall’Arabia saudita. L’operazione “Terra bruciata”, repressione della
rivolta sciita nel nord Yemen, ha prodotto solo da ultimo e limitandosi a quanto
trapelato sulla stampa internazionale, 90 ammazzati nel settembre in un raid
contro un campo profughi, tutti civili in fuga; altre decine uccisi verso metà
novembre, sempre sciiti; raid il 15-17 dicembre contro il villaggio di Bani Maan
(80 o, per altre fonti, 120 vittime) e il 24 dicembre; ma fonti della guerriglia
parlano di almeno 20 attacchi americani contro la provincia di Sa’ada,
epicentro della ribellione, dei quali avrebbero prove fotografiche; mentre altre
operazioni militari flagellano il sud, dov’è in atto la lotta sociale e
separatista sunnita.
La repressione porta dunque il marchio Usa, che accusano la
minoranza sciita del nord di essere foraggiata dall’Iran, ed i sunniti del sud
di essere sostenuti da al Qaeda; mentre scorrazzano in lungo e in largo agenti
speciali della Cia incaricati di operazioni segrete, coordinati dal generale
David Petraeus, altri dell’antiterrorismo guidati da John Brennan, ed è in
stato di allerta permanente la base di Gibuti (2000 marines).
L’interferenza americana, benché poco ostentata, è
risalente. Si rintraccia nella guerra interna dei primi Novanta fra i nordisti
guidati da Saleh e i sudisti guidati da Salim el Bid, che ha vanificato
l’unificazione del paese decisa nel 1990. Fu questa intrusione a motivare
l’attacco al cacciatorpediniere Cole, condotto il 12 ottobre 2000 mediante un
battello- bomba mentre attraccava nel porto di Aden (17 marines uccisi ed oltre
30 feriti). L’anno successivo furono arrestate in relazione all’attentato 25
persone, indicate come elementi qaedisti. E l’8 gennaio 2002, in
un’intervista, l’allora ministro della Difesa statunitense Paul Wolfowitz
ventilava l’allargamento delle “operazioni contro il terrorismo” allo
Yemen. Appare risalente anche la acquisizione agli Usa del governo Saleh che,
fra l’altro, partecipò nel giugno 2004 al vertice del G8 al quale gli
americani invitarono i governi arabi sottomessi per lanciare la “Iniziativa
per il Grande Medio Oriente” (Igmo), il progetto bushista di americanizzare
l’intera area. Ma gli Usa notoriamente non si fidano degli alleati in vendita
e preferiscono marcarli da vicino: si sono insospettiti, per esempio, per
l’evasione di prigionieri politici da un carcere della capitale, nel febbraio
2006, fra i quali il dirigente qaedista Nasir Wuhaishi, e per l’accoglienza
trionfale riservata ad Ali Hassanal Moayad, sequestrato in Germania nel 2003 e
sprigionato nel 2009 dopo aver subito le consuete torture. Infine, c’è stato
l’attentato all’ambasciata americana di Sana’a del 17 settembre 2008 .
Perché allora fingere il carattere meramente locale del
conflitto nello Yemen, in interviste rilasciate una dietro l’altra dai
consiglieri del presidente, almeno fino al discorso muscolare di Barack Obama
del 2 gennaio che pare aver ufficializzato il terzo fronte? Una spiegazione
viene da Steve Emerson, l’autore di “American Jihad”, riportato da “Repubblica” del 3 gennaio nel servizio di Angelo Aquaro: “Gli
Usa non vogliono che nel mondo mussulmano si percepisca l’apertura di un terzo
fronte. Ma questa scelta ha un limite”. Forse è la spiegazione giusta, se
si pensa all’ipocrisia connaturata all’amministrazione Obama (v. Ingerenze-
per ora fallite - in Iran,
luglio 2009; La mano tesa di Barack Obama,
maggio 2009), messo poi in difficoltà dalle accuse di indecisione mossegli dai
repubblicani dopo lo strano attentato sull’aereo per Detroit, così da
decidere di imitarne lo stile (“guerra contro la rete dell’odio”, “la
pagheranno cara”, accuse a un presunto “imam del terrore” ecc.). La
sostanza, come oramai dovrebbe essere chiaro, è rimasta invariata. La “mano
tesa” di Obama si concretizza nello Yemen in raid omicidi condotti,
direttamente o per procura, su un paese poverissimo, dove circa la metà della
popolazione non ha lavoro, la cui risorsa principale è in via di esaurimento,
afflitto dal carovita e da un governo corrotto.
La decisione di esplicitare maggiormente l’intervento
americano, facendo così precipitare la situazione, è dovuta con probabilità
all’inasprirsi del conflitto israelo- americano con l’Iran, visto come
proteggente della ribellione sciita (vedi l’articolo di Christian Elia del 5
gennaio 2010, su www.peacereporter.net.
Nello stesso sito, il dossier Yemen
sull’orlo del vulcano, 4 gennaio). Difatti, la situazione è precipitata.
Oggi, 13 gennaio, trionfalistici bollettini di guerra arabo- yemeniti vantano di
aver “sgominato” la rivolta sciita del nord con “centinaia di ribelli
uccisi”. Sapremo fra poco tempo quale realtà sta dietro la baldanzosa
dichiarazione e quanti sono i civili fra le vittime. Il pensiero corre
all’Afghanistan, anche per il trionfalismo delle vantate vittorie; mentre
invece, con un altissimo prezzo di sangue e di distruzione, oltre otto anni di
stragismo americano e Nato nel paese dei Talebani hanno sortito l’effetto di
moltiplicare la resistenza al colonialismo.