Dal ritiro dalle città alle elezioni del marzo 2010


Un ritiro incompleto, contrasti irrisolti e vecchie ferite. Nonostante la retorica ufficiale definisca il 30 giugno 2009 “giorno storico della sovranità nazionale”o “giorno della vittoria”, il ritiro americano dalle città lascia in Iraq – almeno per i prossimi mesi – 133.000 soldati che, secondo le dichiarazioni del generale maggiore Robert Caslen, “circonderanno” le città stesse. Le forze Usa restano, con compiti di consulenza, anche dopo il 30 giugno in alcune città nelle quali la tensione tra fazioni contrapposte permane elevata, come a Mossul, ritenuta roccaforte qaedista come tutta la provincia di Ninive, terreno di scontro tra arabi e kurdi, in cui rimangono 5 postazioni Usa. A Baghdad, con l’escamotage di classificarli “esterni” alla città, benché ne distino pochi minuti d’auto, restano Camp Victory, comprendente 5 basi contigue con una capienza di 20.000 unità e Base Falcon, con una capienza di 5000. Resta anche Camp Prosperity, nel centro città, destinata al controllo della Zona Verde benché quest’ultima sia passata formalmente sotto controllo iracheno. Inoltre, le forze statunitensi avranno a disposizione lo spazio aereo, per operazioni di ricognizione o per bombardamenti; potranno tornare anche per le strade, come abbiamo visto, se la situazione lo richiederà e/o ne saranno richiesti dalle autorità irachene. Rivendicano altresì compiti di “addestramento” delle forze irachene. Clausole queste ultime che si prestano ad interpretazioni diverse: il governo iracheno le interpreta nel senso che occorre sempre il proprio consenso per ogni operazione, anche eccezionale ed urgente, e cerca di vietare i pattugliamenti congiunti. “Si è giunti al punto- scrive nel settembre 2009 Immanuel Wallerstein (riportato sul “Manifesto” del 12 settembre) che le forze irachene stanno impedendo alle forze Usa di passare i check- point con i rifornimenti nelle ore diurne. Gli americani sono irritati…” e cercano di mantenere un ruolo diretto, rivendicando elasticità. A tutto ciò occorre aggiungere che il referendum sul Sofa, Status of forces Agreement (v. note 16 novembre 2008, 29 gennaio 2009) inizialmente previsto per il mese di luglio, è stato rinviato: il suo esito si prevedeva negativo ed era quindi inviso agli americani, mentre al Maliki aveva già predisposto un disegno di legge diretto a consentire l’annullamento dell’accordo in Parlamento a maggioranza semplice.

Agli effettivi statunitensi bisogna aggiungere i mercenari – così detti contractors militari- che, con l’ascesa di Obama alla Casa Bianca, a dispetto delle dichiarazioni in contrario senso del generale Ray Odierno e dello stesso Obama, sono aumentati del 23%. Rivelazioni frammentarie sui fatti e misfatti di questi veri e propri killer continuano ad emergere nel corso dell’anno. Ne parlano “New York Times” e “Washington Post” il 20 agosto, soffermandosi sugli aspetti più scabrosi: la licenza di uccidere dei contractors senza che lo Stato che li assolda se ne prenda a tutti gli effetti la responsabilità, il mancato controllo del loro operato, la sua evanescenza anche rispetto all’informazione, le cifre stratosferiche di denaro loro versato. Nel novembre 2009 ancora il “New York Times” rivela una maxi tangente destinata, nel dicembre 2007, a funzionari iracheni corrotti per tacitare lo scandalo, e relativo processo, che vede incriminati mercenari di Blackwater per il massacro di 17 civili iracheni (vedi note 16 settembre, 1 ottobre, 14 novembre 2007). Il giornale non può documentare che la tangente, che avrebbe dovuto transitare per Amman, sia stata effettivamente intascata. Il 29 gennaio 2009 (vedi nota relativa) il governo iracheno annunciava la revoca della licenza alla Blackwater e notificava la decisione all’amministrazione americana, che provvede difatti a conferire i relativi incarichi alla società Dyn Corp, già operante in Iraq; continuerebbe però per tutto l’anno a passare incarichi alla Blackwater, ribattezzata Xe, mediante la prestanome US Training Center. I prossimi ritiri (i soldati Usa dovrebbero lasciare il paese nel 2011 “se la situazione lo permetterà”) non avranno significato se saranno compensati dall’aumento dei mercenari.


La volontà Usa di perpetuare il suo dominio sull’Iraq non si fonda solo sull’occupazione militare, né si attenua con l’apparente attenuarsi di quest’ultima. Come dimostra l’arrivo a Baghdad, il 3 luglio, del vice presidente statunitense Joseph Biden jr, con l’incarico di inviato speciale della Casa bianca per l’Iraq; incarico confermato pubblicamente dal portavoce di Barak Obama proprio il 30 giugno, il “giorno storico della sovranità irachena”. Biden ha il compito non solo di gestire il ritiro delle truppe statunitensi ma anche di indirizzare la politica irachena sui temi che gli Usa ritengono di loro interesse, come la riconciliazione nazionale (tra sciiti e sunniti, con la soluzione del problema degli ex baathisti, nonché tra arabi e kurdi, con la soluzione dei problemi di Kirkuk e dei “territori contesi”). Dunque, Biden appena giunto invita gli iracheni a fare progressi in questo campo. Non basta agli Usa avere a Baghdad la più grande ambasciata del mondo, una sorta di città militarizzata nel cuore della capitale irachena. Devono anche inviare in Iraq, per influenzarne la politica, la seconda carica dello stato. Oltretutto proprio Biden, che non è nuovo a pesanti intromissioni nella politica irachena: due anni fa, infatti, presentò al Senato statunitense una risoluzione tendente ad appoggiare la divisione dell’Iraq “in tre regioni semi autonome”, con un “limitato governo centrale a Baghdad” responsabile solo della difesa e della gestione dl petrolio. Il Senato Usa approvò la risoluzione con maggioranza bipartisan il 26 settembre 2007, Biden si attirò le critiche di tutte le forze politiche irachene (tranne le kurde), Nouri al Maliki definì “una catastrofe” la risoluzione. Nemmeno ora il premier iracheno può sorvolare, dunque reagisce all’invito di Biden facendo la voce grossa, invitandolo a non interferire negli affari interni iracheni. Invito inascoltato ovviamente.

Come abbiamo visto, gli Usa hanno di fatto avocato a sé i rapporti con i baathisti fin dalla creazione dei Consigli del risveglio collaborazionisti, li hanno sviluppati in tutta autonomia fino al ritiro dalle città (vedi da ultimo note 6-7 aprile e 27 giugno 2009), e li continuano fino alle elezioni del marzo 2010, riempiendo il vuoto lasciato dal governo al Maliki per la reciproca diffidenza esistente tra le componenti sciite rappresentate nel governo e le forze sunnite (diffidenza che si estende ai disertori della resistenza sunnita e qaedista, i Consigli del risveglio e le milizie Shawa, come pure abbiamo descritto). Ciò naturalmente è conseguenza della sanguinosa guerra civile che, pur calata alquanto d’intensità, continua a mietere vittime ed a ferire il paese (v. oltre, Violenze e repressione continuano).


Riguardo al contingente britannico, anch’esso ritiratosi in modo incompleto per le 400 unità speciali rimaste nel paese, un evento che fa discutere – soprattutto gli inglesi- sono i lavori della commissione presieduta da sir John Chilcot, iniziati a fine novembre 2009, con il compito d’indagare le motivazioni della partecipazione alla guerra, alla luce dell’inesistenza delle armi di distruzione di massa attribuite all’Iraq, l’effettivo ruolo svolto nel paese e l’adeguatezza della preparazione delle truppe, causa il numero delle perdite subite, considerato alto (179). I lavori della commissione saranno pubblici a metà, per motivi di “sicurezza nazionale”, i testimoni svincolati dal giuramento, le conclusioni il nulla assoluto, tuttavia alcuni momenti sono significativi: per esempio l’audizione di Peter Ricketts, presidente del Joint Intelligence Commitee (l’organismo di coordinamento dei servizi che divulgò il falso documento sulle armi di distruzione di massa di Saddam) che tenta di scaricare ogni responsabilità sugli Usa sia riguardo l’attribuzione all’Iraq di armi inesistenti sia riguardo i piani di attacco al paese predisposti prima dell’11 settembre 2003, per essere parzialmente smentito dalla stampa secondo cui la corresponsabilità di Tony Blair data almeno dall’inizio del 2001. Altro momento pubblicizzato è la testimonianza, alquanto contestata, dell’ex premier che rivendica i meriti della partecipazione alla guerra – benché ammetta “avrei dovuto usare altri argomenti” - per la finalità raggiunta dell’eliminazione di Saddam Hussein ed il forte ridimensionamento dei suoi seguaci, al “prezzo che c’era da pagare”: dagli iracheni naturalmente.

Coeva all’inchiesta Chilcot è un’altra, ordinata dal ministero della Difesa, sui casi di abusi perpetrati dagli inglesi contro i civili iracheni. E’ di natura solo amministrativa, inefficace perciò dal punto di vista giuridico, per altro è l’occasione per la stampa, particolarmente l’Independent, di far riemergere i crimini inglesi: fra i quali l’uccisione ad essi attribuita di 20 civili ed il trattamento inumano e degradante - dalla costrizione a stare testa a terra sotto il tiro dei fucili ai pestaggi ed altre sevizie - riservato agli iracheni arrestati. Il 16 febbraio 2010, una fotografia costringe i seviziatori a confessare di essersi “divertiti a turno ad usare i prigionieri politici come punching ball” e la prassi vigente fra le truppe di “esercitare violenza gratuita”. L’avvocato Peter Shiner, difensore di molti prigionieri politici, ha dichiarato che, oltre i 33 casi di abusi denunciati alla commissione, altri su cui nessuno ha indagato sarebbero centinaia. Con tutto questo la magistratura britannica ha finora condannato un solo militare, il caporale Donald Payne che, per sottrarsi alla parte di capro espiatorio, ha indicato le responsabilità dei suoi superiori.

A riaprire un’altra ferita mai sopita, il 2 luglio 2009 compaiono sul “Washington Post” 25 verbali desecretati degli interrogatori di Saddam Hussein, 20 ufficiali e 5 informali, resi nei primi mesi del 2004 dal presidente iracheno dai quali emerge fra l’altro che egli dichiarò, pochi giorni prima d’essere ucciso, di non aver opposto una negativa sufficientemente efficace all’accusa di detenere armi letali, ivi compreso il rifiuto delle ispezioni delle Nazioni unite, per il timore di scoprire il fianco all’Iran e che “gli ispettori Onu potessero indicare direttamente agli iraniani dove infliggere al nostro paese i maggiori danni”, secondo quanto riporta George Piro, il funzionario del Fbi che diresse gli interrogatori. Non bastasse, il 25 gennaio 2010 è eseguita la condanna a morte, anch’essa per impiccagione, di Ali Hasan al Majid, cugino di Saddam Hussein (così detto Ali il chimico), in conseguenza delle condanne riportate (digita il nome su questo dossier).


Violenze e repressione continuano. Incentivate da quanto appena detto, per quanto riguarda particolarmente i baathisti, ed inoltre dal clima preelettorale e dall’attutimento della presenza americana, sanguinosi attacchi, taluni di fazione ed altri contro simboli del potere, si verificano per tutto il 2009, seguite da puntuale repressione. Ne citiamo i principali, con l’avvertenza che, come sempre, il bilancio delle vittime va letto considerando anche gli scontri che seguono gli attentati, che i numeri sono quelli riportati dalle agenzie nell’immediato e quindi approssimativi e di solito non corretti nei giorni successivi. A ciò va aggiunto che, per non compromettere l’acquisita semi- sovranità e le prossime elezioni politiche, le autorità irachene hanno tacitato tutto quello che era possibile tacitare.

L’8 luglio 2009, a Mossul, muoiono 14 persone ed altre 30 restano ferite per l’esplosione di un’autobomba. Il 9 luglio, un attacco kamikaze è compiuto in un quartiere sciita di Tal Afar provocando almeno 30 morti e decine di feriti, un altro colpisce Sadr City con due ordigni esplosi in rapida successione, portando il bilancio delle vittime a 40 in un solo giorno. Ancora un quartiere sciita di Mossul è colpito l’11 luglio, con 4 morti ed altre decine di feriti. Fra il 27 e il 29 luglio, le forze governative prendono con la forza il controllo di Camp Ashraf, base dei Mujaheddin Khalq (Mek), che al Maliki intende espellere dal paese: il relativo scontro causa 8 morti, secondo il governo tutti fra i terroristi, e centinaia di feriti, fra i quali 30 governativi. Agosto si apre con un attacco a Mossul contro un convoglio di soldati iracheni, uno dei quali muore ed altri restano feriti; ma l’attentato più rilevante avviene a Baghdad il 19 agosto contro i ministeri delle Finanze e degli Esteri e l’hotel Rashid, dov’è in corso una riunione di capi tribali: oltre 100 i morti, 500 i feriti. Dopo qualche giorno, giunge la rivendicazione dello “Stato islamico d’Iraq”, ovvero Al Qaeda. Il governo al Maliki richiede alla Siria la consegna di due dirigenti del Baath colà rifugiati, Mohammed Youni al Ahmad e Sattam Farham, il quale ultimo sarebbe stato indicato da un arrestato sottoposto ad interrogatorio pesante, ma provoca una crisi diplomatica seguita dal richiamo in patria dei due ambasciatori. In settembre, il 14, il maggior attacco si verifica ancora a Mossul contro la polizia irachena, nel quale restano uccisi 3 poliziotti ed altri 7 restano feriti, uccisi anche 2 miliziani in conseguenza dell’intervento di un elicottero Usa. Un altro attentato, sempre contro la polizia, uccide 3 agenti a Baquba. Verso la fine di ottobre, il 25, è compiuto nella capitale l’attentato più spettacolare contro i palazzi del potere, nella specie il governatorato della città ed il ministero di Giustizia, fronteggiato anche da elicotteri americani, mentre i partiti stanno discutendo la legge elettorale: bilancio, 164 morti e centinaia di feriti. In conseguenza dell’attentato sono operati numerosi arresti, alcune decine dei quali nelle stesse forze di sicurezza. L’8 dicembre sono presi di mira ancora due ministeri, del Lavoro e degli Affari sociali, un posto di polizia ad al Dora, ma anche l’Accademia delle belle arti ed un mercato della capitale. Bilancio, 129 morti ed oltre 400 feriti. Il 25 gennaio 2010, non casualmente lo stesso giorno dell’impiccagione di Ali Hasan al Majid, tre autobomba colpiscono nella capitale 4 hotel per stranieri causando 36 morti e almeno 70 feriti. Il 1° febbraio, sulla strada che collega la capitale a Kerbala, una donna si fa esplodere in mezzo ai pellegrini sciiti provocando la morte di 40 e il ferimento di altre decine. Gli ultimi attentati di questo periodo, e relativi scontri, avvengono nella giornata elettorale del 7 marzo 2010, con un bilancio di 38 morti ed oltre 100 feriti, quasi tutti a Baghdad.

Sono ricomparsi anche i rapimenti, per rivendicare la liberazione di prigionieri ed altri obiettivi politici. Nel dicembre 2009 viene rilasciato l’inglese Peter Moore ma la contropartita promessa rimanendo inadempiuta, la “Lega dei virtuosi” rapisce il mese seguente un mercenario, mostrandone poi il video che rivendica altresì la condanna degli assassini della Blackwater.


Pure irrisolto resta il problema delle violenze di Stato, anche oltre l’aspetto della sicurezza- repressione degli attentati. Nonostante le ammonizioni dell’Onu e l’istituzione di una commissione ad hoc (vedi nota 17 giugno 2009), non sembra essere migliorato di molto il trattamento riservato ai prigionieri, politici e non. La rivolta più nota avviene nel famigerato carcere di Abu Ghraib nella prima metà del novembre 2009, contro condizioni vissute come disumane, ed è stroncata brutalmente dalle forze di sicurezza che uccidono un detenuto e ne feriscono altri 40. Il 15 settembre 2009 la festa per la scarcerazione di Muntadher al Zaidi, l’ardimentoso lanciatore di scarpe contro Bush (v. nota 14 dicembre 2008), la cui pena è stata ridotta a 9 mesi dagli iniziali 3 anni, è guastata dal racconto di sevizie per indurlo a scrivere una lettera di scuse al presidente americano, poi di bruciature di sigarette alle orecchie, fratture alle costole ed al naso così che, prima di riprendere il suo lavoro di giornalista, il giovane dovrà affrontare un periodo di riabilitazione.


La libertà di stampa poi, a dispetto delle ripetute assicurazioni del primo ministro Nouri al Maliki (nessun giornalista incarcerato, nessuna limitazione tranne quelle dirette a prevenire odio religioso e settario), si può definire tuttora una libertà vigilata. E’ lo stesso premier a smentire nei fatti le sue vanterie, intentando azione legale dapprima contro il sito Kitabat, condannato dal tribunale di Baghdad nell’estate 2009 a pagare un risarcimento pari ad oltre 600.000 euro per avere additato una politica apparentemente familistica del premier, poi contro il “Guardian”per un articolo che criticava invece il suo autoritarismo. Sempre nell’estate 2009, una circolare pone ai giornalisti l’onere di richiedere un’autorizzazione per girare riprese o intervistare persone nelle strade, seguita dal divieto di recarsi nell’immediato sui luoghi dove è stato compiuto un attentato o sono avvenuti scontri, con l’effetto di ostacolare la verifica delle dichiarazioni ufficiali. Nel gennaio 2010 un’associazione di giornalisti rende noto in termini critici che il ministero dell’Interno ha inviato alle emittenti radiotelevisive un’altra circolare, finalizzata alla “approvazione temporanea di radio, tv e trasmissioni satellitari”, che pone una serie di condizioni fra le quali la denuncia di tutti gli apparecchi ed una lista degli addetti accompagnata dai loro documenti; e specifica che “la concessione delle licenze avverrà in base alla valutazione delle agenzie di sicurezza per garantire il rispetto dei termini e il controllo delle licenze stesse”. Oltre alle normative, occorre soprattutto ricordare che nel paese, dal marzo 2003 ad oggi, sono stati minacciati o aggrediti centinaia di giornalisti ed altri operatori dell’informazione, 246 dei quali sono stati uccisi, quasi tutti iracheni.


Petrolio e povertà. Come abbiamo visto gli Usa non sono riusciti ad ottenere dal governo iracheno, nonostante le pressioni ripetute e l’appoggio curdo, l’accaparramento delle risorse petrolifere nei termini coloniali che avrebbero desiderato. Non ancora approvata la legge del petrolio le prime gare d’appalto, che avrebbero dovuto concludersi nel luglio 2009, non hanno esito per la pretesa delle compagnie straniere di garantirsi profitti esorbitanti che scavalcano di gran lunga le soglie fissate dal ministero del Petrolio. A luglio si conclude un solo accordo, che sarà ratificato nei primi di novembre – data alla quale è spostato il primo round delle gare- relativo all’importante giacimento di Rumaila, nel sud iracheno, il cui sfruttamento è garantito ad un consorzio comprendente British Petroleum e China national petroleum Corporation (Cnpc), che s’è adeguato alla richiesta governativa di ottenere 2 dollari a barile in luogo del doppio richiesto con la presentazione dell’offerta. In novembre, sono aggiudicati i giacimenti di Qurna 1, al consorzio formato dall’americana Exxon e dall’olandese Shell, e di Zubair il cui sfruttamento è concesso al consorzio comprendente l’italiana Eni, la statunitense Occidental Petroleum e la sudcoreana Kogas. In dicembre, il secondo round di appalti vede prevalere le società asiatiche. Gazprom guida il consorzio vincente la gara per il giacimento di Badra, che comprende anche la malese Petronas e la turca Tpao; Qurna 2 va a Lukoil, consorziata con la norvegese Statoil; la cinese Cnpc, con Petronas e Total, vince l’appalto relativo ad Halfaya, infine la Shell, consorziata con Petronas, si aggiudica Majnoon. Senza esito restano le gare relative ai giacimenti presso la capitale e Mossul, ritenuti rischiosi al punto da far lievitare le richieste di guadagno oltre quanto è ritenuto accettabile dal ministero del Petrolio. Il cui titolare, Hussein al Shahristani, rende dichiarazioni soddisfatte avendo realizzato la gran parte del suo progetto di “privatizzazione equilibrata” (vedi 23 giugno 2009) che dovrebbe rialzare la produzione dei maggiori giacimenti e rimpinguare le casse dello Stato: benché assai meno di quanto originariamente previsto, per il crollo dei prezzi del greggio.


Ma adesso l’Iraq è un paese allo stremo. Le condizioni di vita dei suoi abitanti sono sintetizzate in un rapporto, divulgato nell’estate 2009, secondo il quale il 25% degli iracheni vive al di sotto della soglia di povertà, il sistema delle razioni alimentari - che dovrebbe essere finanziato dai proventi petroliferi al momento scarsi - è praticamente collassato al pari dei servizi sociali, precari anche i pagamenti di stipendi, la cui copertura viene dalla stessa fonte, senza contare la corruzione che prosciuga ulteriormente le casse esangui. La disoccupazione è altissima e porta con sé un elevato livello di criminalità comune. “Le forze americane si lasciano dietro un paese che è un relitto che galleggia a malapena”, ha scritto Patrick Cockburn su Independent del 23 giugno 2009 (leggilo tradotto su Osservatorio Iraq alla stessa data). Alla vigilia delle elezioni politiche del marzo 2010, l’Iraq appare denque un paese sfinito da trent’anni di guerra, sanzioni, povertà diffusa e lotte intestine che sembrano aver esaurito le sue energie vitali.


Elezioni regionali e politiche. Nel luglio 2009, sei mesi dopo le regionali nelle altre zone dell’Iraq, le elezioni in Kurdistan per il rinnovo del parlamento regionale e del presidente assegnano la vittoria, scontata, alla coalizione che associa il Partito democratico del Kurdistan (Pdk) e l’Unione patriottica (Puk) di Massud Barzani e Jalal Talabani (70% circa dei voti e 60 seggi su 111), il primo dei quali è riconfermato presidente del Kurdistan.

Le elezioni politiche si svolgono il 7 marzo 2010, con un’affluenza del 62% circa,13% meno della precedente tornata. L’astensione è particolarmente significativa per gli sciiti, che votarono in massa nelle elezioni del 2005, mentre le zone sunnite, i cui seggi furono allora disertati, registrano ora un tasso significativo di votanti a Tikrit, Falluja, Samarra e Diyala. Questo pare il principale motivo della prevalenza della lista ‘Iraqiya’ guidata da Iyad Allawi, che si è presentato come l’uomo della riconciliazione nazionale, sulla ‘Alleanza per lo stato di diritto ’ del premier Nouri al Maliki, benché per due seggi soltanto (91 a 89) dopo settimane di testa a testa registrato nel lento spoglio, concluso il 26 marzo. Al terzo posto, con 70 seggi, si piazza l’Ina, la lista del movimento sadrista associato all’ex Sciri, da tempo in crisi di prospettive, il cui leader Abdelaziz al Hakim è morto lo scorso agosto. Torniamo sulle elezioni e le prospettive che aprono nei prossimi giorni, con un commento nella rubrica Riflessioni, a fianco di questo dossier (questo capitolo è aggiornato al 27 marzo 2010).