7. LA SECONDA GUERRA DEL GOLFO

Il motto della campagna bellica è "shock and awe", tradotto solitamente con "colpisci e terrorizza": il secondo termine dell’endiadi si riferisce più propriamente al timore reverenziale e annichilente che l’essere umano prova dinanzi a ciò che è grande e sublime. La coalizione si identifica cioè in un’entità superiore, pressoché divina, che può provocare negli iracheni questo stato d’animo. I bombardamenti colpiscono violentemente Baghdad tutta, compresi palazzi presidenziali, siti governativi, un bunker presunto rifugio del dittatore iracheno, nell’evidente tentativo di por fine celermente alla guerra annientando fin dai primi giorni Saddam Hussein e il suo governo. La coalizione, per inciso, dimostra di non credere per prima alle accuse ossessivamente rivolte a Saddam Hussein, secondo le quali il dittatore iracheno avrebbe nascosto le armi di distruzione di massa in depositi scavati sotto i palazzi presidenziali: se le considerasse fondate si guarderebbe bene dal bombardare i palazzi stessi.

Certo una guerra risolta rapidamente da massicci bombardamenti aerei sarebbe, da un lato, un più efficace monito per chiunque nel mondo sia restio a sottomettersi al volere degli Stati uniti; eviterebbe, d’altro lato, la necessità di una lunga e faticosa campagna di terra. La sproporzione delle forze in campo, nelle previsioni, gioca a favore dell’ipotesi di guerra lampo, ma la realtà dei fatti è destinata a smentirla.

Una grande cura, ancora maggiore di quella adottata durante la prima guerra del Golfo, è posta nell’influenzare l’opinione pubblica in senso favorevole alla coalizione, attraverso la necessaria opera di disinformazione: a questo proposito la censura e l’embedding dei giornalisti garantiscono la diffusione delle sole notizie – vere o false – che i comandi militari o i governi alleati decideranno di far filtrare, nei modi e nei tempi da questi prescelti. Lo stesso Bush avverte che, per ragioni di sicurezza, le notizie relative alla guerra non saranno complete e spesso nemmeno veritiere. Il fatto che i giornalisti della carta stampata e delle televisioni siano al seguito delle truppe fa sì che assumano e trasmettano il punto di vista degli attaccanti, facilitando in chi legge o guarda un patriottico meccanismo di identificazione. La grande stampa, i grandi network, pigri e condiscendenti, per mesi ricevono dall’alto e trasmettono al pubblico le menzogne più plateali senza il minimo accento critico (solo nell’avanzato 2004, dopo lo scandalo delle torture inflitte ai prigionieri iracheni e le inchieste del giornalista Seymour Hersh – già premio Pulitzer nel 1970 per il suo reportage sulla strage di My Lai – , alcuni giornali iniziano a riflettere una maggiore consapevolezza delle proprie funzioni). Per il giornalismo indipendente non c’è nessun riguardo, anzi è apertamente ammonito dei rischi che corre e trattato come un obiettivo bellico: giornalisti e sedi televisive indipendenti saranno più di una volta deliberatamente colpiti dalle bombe angloamericane, discriminati, perseguiti anche senza motivo. Nonostante questo, il giornalismo indipendente fa il suo dovere, aiutando il mondo ad avere una visione meno strabica degli avvenimenti: fondamentale è la presenza della televisione satellitare del Qatar, la notissima al Jazeera. Per combattere il predominio mediatico di Al Jazeera e diffondere un messaggio – nelle intenzioni dei fondatori – "più equilibrato e ragionevole", un mese prima della guerra è stata creato in Dubai, con capitali sauditi, kuwaitiani e libanesi, il canale satellitare al Arabiya: il nuovo medium però darà prova di una discreta autonomia e non esiterà a informare sulla resistenza irachena all’occupazione, indispettendo gli Usa che già dal luglio 2003 gli Usa inizieranno a rivolgerle, come ad al Jazeera, l’accusa di mentire e di incitare alla violenza contro i soldati americani. L’opinione pubblica americana e britannica è sensibilizzata anche dalle telefonate e dalle e-mail dirette dai soldati alle famiglie, che raccontano una guerra diversa da quella ufficiale: tanto che l’uso dei telefoni cellulari sarà ben presto vietato in prima linea.

La Lega araba dichiara di opporsi alla guerra, peccato che la maggior parte dei suoi membri la appoggi, e non solo a parole. Ma nei paesi arabi la protesta popolare, dopo mesi di silenzio, esplode al momento dell’attacco all’Iraq con dimostrazioni spontanee di massa, spesso represse dai rispettivi governi alleati o succubi di Washington. Al Cairo i manifestanti cercano di raggiungere l’ambasciata americana e sono dispersi dalle forze antisommossa: più di 800 persone sono arrestate, alcune di loro saranno maltrattate in prigione, mentre Mubarak concede alla coalizione lo spazio aereo egiziano e il passaggio attraverso il canale di Suez. A San’a (Yemen) la polizia spara su un nutrito gruppo di manifestanti che intende raggiungere l’ambasciata americana, causando due morti e numerosi feriti. In Giordania la polizia reprime brutalmente le manifestazioni sia nella capitale che altrove, mentre il governo ha già concesso le basi alle forze speciali americane. Anche la Siria è teatro di consistenti manifestazioni. Solo in Kuwait la popolazione manifesta in senso filoamericano. Fuori dal mondo arabo, in Pakistan i partiti islamici egemonizzano le dimostrazioni contro l’invasione dell’Iraq; lo stesso avviene in Kenya e in Nigeria, dove le ambasciate americane devono essere evacuate. A Giakarta, in Indonesia, manifestano contro la guerra più di 200.000 persone senza distinzione d’appartenenza politica; la presidente indonesiana Megawati chiede una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell’Onu per condannare l’aggressione all’Iraq, richiesta che ovviamente non trova seguito alcuno, nemmeno nelle capitali europee che più si sono opposte alla guerra. Anzi, il presidente Chirac assicura da subito il passaggio dei bombardieri americani nello spazio aereo francese; augura inoltre un "rapido successo" alle forze della coalizione, seguito immediatamente dal ministro degli Esteri tedesco Fischer e dal presidente russo Putin, che formulano analoghi auspici.

20 marzo 2003

All’alba, inizia la offensiva aerea angloamericana su Baghdad; le prime truppe di terra penetrano dal Kuwait puntando su Bassora. Giungono voci di scontri anche dal nord, nel Kurdistan, intorno a Mossul e Kirkut. Un elicottero americano precipita.

21 marzo 2003

Si combatte nel sud del paese; Baghdad è bombardata. Al Jazeera annuncia che le forze irachene hanno catturato molti prigionieri. Precipita un elicottero americano. In serata, il governo del partito islamico Akp, al potere in Turchia, concede il sorvolo alle forze angloamericane. Sotto la forte pressione del popolo turco, contrario alla guerra, il Parlamento e una parte dell’Akp impediranno che il governo turco negozi ulteriori concessioni alla coalizione.

22 marzo 2003

Nel sud, le truppe della coalizione giungono a Umm Qasr, a Bassora, a Nassiriya dopo accaniti combattimenti. Baghdad, bombardata pesantemente, è ormai senza luce; moltissime abitazioni civili sono distrutte. Il presidente americano Bush proclama: "Niente mezze misure" ma avverte che la guerra "potrebbe essere più lunga e difficile del previsto".

23 marzo 2003

Al Jazeera mostra le immagini di 5 americani fatti prigionieri dagli iracheni presso Nassiriya: il ministro americano della Difesa Donald Rumsfeld si appella indignato alla convenzione di Ginevra, che proibisce di mostrare prigionieri umiliati; nessuno però protesta per le immagini di prigionieri iracheni mostrate dalle televisioni americane. E’ ormai certa la morte di almeno 4 marines, mentre si hanno notizie confuse circa un aereo abbattuto sopra Baghdad.

24 marzo 2003

Infuria sempre la battaglia a Bassora, che resiste agli inglesi: alla città è stata tolta l’acqua. Continuano i bombardamenti su Baghdad. Saddam Hussein appare due volte in televisione per incitare gli iracheni alla vittoria.

24 marzo 2003

In Italia, le truppe Usa stanno lasciando la caserma Ederle di Vicenza con destinazione Iraq: il governo Berlusconi, in violazione della Costituzione, ha tacitamente concesso le basi agli americani.

26 marzo 2003

A Baghdad, i missili si abbattono sulle abitazioni civili in un quartiere sciita, colpiscono un mercato provocando una strage. Anche la televisione irachena è bombardata. Si combatte a Najaf. I parà provenienti dalla caserma Ederle di Vicenza sono nel nord Iraq.

27 marzo 2003

Molte città del sud sono state già ufficialmente "conquistate", ma l’annuncio è stato prematuro: si combatte ancora per prendere Nassiriya, Bassora, Najaf, Samawah, Kerbala. Nel Kurdistan sono paracadutati un migliaio di soldati americani.

27 marzo 2003

Silvio Berlusconi, che finge ancora una posizione di neutralità, afferma che i soldati americani giunti in Iraq dalla caserma Ederle di Vicenza non sono destinati a partecipare alla guerra, ma è smentito dal generale americano Brooks.

28 marzo 2003

Nel venerdì di preghiera, i bombardamenti su Baghdad provocano 55 morti in un mercato e decine di morti in altre parti della città. Rumsfeld minaccia la Siria, accusata di fornire armi all’Iraq, ma non precisa il tipo di armi e le modalità della fornitura; ammonisce inoltre l’Iran, avvertendo che i miliziani sciiti dispiegati in Iraq (si tratta di iracheni contrari al regime di Saddam e addestrati in Iran) saranno considerati combattenti, in caso di loro interferenze.

28 marzo 2003

7 giornalisti italiani al seguito delle truppe inglesi si sganciano dall’embedding e sono catturati dagli iracheni mentre cercano di entrare a Bassora.

29 marzo 2003

Ad un check point presso Najaf, 4 marines sono uccisi in un attacco suicida: il governo iracheno dirà che migliaia di militanti arabi sono pronti ad analoghi gesti. Raid aerei colpiscono Bassora, Kerbala, Baghdad dove sono distrutti il ministero dell’Informazione e la rete telefonica. Missili Tomahawk cadono per errore in Arabia e Turchia.

29 marzo 2003

I giornalisti italiani sono liberati, dopo aver passato la notte allo Sheraton di Bassora, e raggiungono Baghdad.

30 marzo 2003

Baghdad è bombardata senza sosta, in particolare sono colpite la zona industriale e una fattoria alla periferia della città dove muoiono 11 bambini. Il "Washington Post" informa che forze speciali della coalizione si sono infiltrate nel deserto occidentale iracheno per impadronirsi di 4 siti sospettati di contenere armi di distruzione di massa, ma "la missione si è risolta con un nulla di fatto". Anche in altri 6 siti non si è trovato niente.

Dieci giorni di bombardamenti martellanti non hanno dato il risultato sperato: appare ormai evidente che l’ipotesi di una immediata resa dell’Iraq alle soverchianti forze avversarie deve considerarsi tramontata. Il ministro americano della Difesa, Donald Rumsfeld, si affretta quindi, sotto una falsa apparenza di umiltà, a prendere pubblicamente le distanze dal piano di attacco: "vorrei attribuirmene il merito" – dichiara, apparendo su tutte le reti televisive – "ma non è farina del mio sacco". E scarica la paternità del piano sui generali, che il ministero avrebbe solo assecondato. Sulla questione interviene anche il famoso giornalista Peter Arnett, eroe televisivo ai tempi della prima guerra del Golfo (allora era corrispondente in Iraq della Cnn), che osa rilasciare un’intervista sul tema alla TV irachena: "Il primo piano di guerra è fallito a causa della resistenza irachena, – dichiara – ora stanno cercando di scriverne un altro". La Nbc, rete per cui lavora attualmente Arnett, licenzia senza perdere tempo lo sfrontato giornalista (oggi Arnett non è più un reporter, vive a Baghdad e scrive libri).

Circa il mancato ritrovamento delle famigerate armi di distruzione di massa raccontato dal "Washington Post", funzionari del governo Usa assicurano che la caccia continua, non più attraverso le apposite agenzie delle Nazioni unite (Unmovic e Aiea, accusate implicitamente di incapacità) bensì appaltata a una società privata che intende reclutare il personale proprio sottraendolo alle suddette agenzie: spinge infatti molti ispettori a rompere il loro contratto con l’Onu per poi assumerli nei propri ranghi. Il capo degli ispettori Unmovic, Blix, infuriato alla notizia, dichiara che alla scadenza (giugno) non rinnoverà il suo contratto con l’Onu.

31 marzo 2003

10 missili cadono a Baghdad presso l’hotel Palestine, che ospita giornalisti di vari paesi. Molti iracheni immigrati in Giordania tentano di tornare in patria per combattere. Numerosi ayatollah iracheni in esilio denunciano come ingiusta e immorale la guerra, e dichiarano sacrilega la collaborazione con gli Usa anche se si tratta di combattere Saddam Hussein. Secondo il "Washington Post", le truppe americane hanno arrestato molti civili iracheni che, accusati di terrorismo, sono stati portati a Guantanamo.

1 aprile 2003

Un missile cade su Hilla, l’antica Babilonia, provocando 33 morti. Le truppe americane aprono il fuoco su un furgone a Najaf, uccidendo 11 donne e bambini: non è certo il primo caso di uccisione di civili, ma è il primo ufficialmente ammesso; dopo poche ore un episodio analogo si verifica a Shatra. A Nassiriya i rastrellamenti casa per casa, secondo al Jazeera, si traducono in un massacro. Si ha notizia delle prime obiezioni di coscienza tra gli angloamericani: due soldati inglesi di cui non si fanno i nomi e Stephen Fank, un soldato americano che sarà processato nei prossimi giorni.

1 aprile 2003

Il segretario della Lega araba Amr Mussa, parlando alla Tv greca, si dichiara convinto che la vera guerra inizierà il giorno dopo la caduta di Baghdad, manifesta preoccupazione per il possibile allargamento del conflitto a tutto il Medio oriente e il Mediterraneo e afferma che "la democrazia non viaggia su un B 52".

2 aprile 2003

A Baghdad è bombardato l’ospedale, in particolare è colpito il reparto maternità. Human Right Watch denuncia l’uso di bombe a grappolo, i cui effetti sono paragonabili a quelli delle mine antiuomo. Si conclude la farsa mediatica che ha per protagonista Jessica Lynch: la ragazza, caduta in un’imboscata il 23 marzo, sarebbe stata ferita mentre combatteva accanitamente, poi picchiata e torturata dagli iracheni, infine liberata con una audace incursione dei corpi speciali nell’ospedale di Nassiriya (il filmato notturno della liberazione, con rumore di spari, scoppi, urla di soldati americani è diffuso in tutto il mondo). In realtà Jessica, appartenente alla sussistenza, non ha mai combattuto, non ha alcuna ferita d’arma da fuoco o da taglio, ha riportato qualche frattura quando il suo camion è saltato su una granata, è stata curata premurosamente dai medici iracheni di Nassiriya che hanno anche tentato di rimandarla dai suoi, ma al check point le truppe Usa hanno fatto fuoco sull’ambulanza che la trasportava; il ‘salvataggio’ avviene dopo che l’esercito iracheno ha lasciato Nassiriya: gli americani si assicurano che in città non ci siano neppure fedayn, quindi arrivano con elicotteri e carri armati, sparano nell’ospedale, ammanettano medici, provocano danni alle attrezzature sanitarie. La vera vicenda è ricostruita dalla stampa inglese ("Times" e "Guardian"), ma Hollywood sta preparando un film basato sulla versione propagandistica e Jessica vanta una provvidenziale amnesia.

2 aprile 2003

In Giordania, il Fronte d’azione islamico intima al governo di espellere dal paese i soldati americani, sostenendo che dar loro appoggio nella guerra contro l’Iraq costituisce un tradimento dell’Islam e della nazione araba. Re Abdallah, in difficoltà tra pressioni interne e fedeltà atlantica, si difende ricordando di aver negato lo spazio aereo giordano alla coalizione e definisce come una "aggressione" la guerra contro l’Iraq.

2 aprile 2003

Sul "Financial Times", l’americano Max Boot (membro del Council on foreign relation) instaura un illuminante paragone tra l’attuale invasione angloamericana dell’Iraq e l’invasione della Francia da parte di Hitler, scrivendo con entusiasmo e senza vergogna: "I francesi combatterono duramente nel 1940 (all’inizio). Ma alla fine la velocità e la ferocia dell’avanzata tedesca portarono ad un collasso totale. La stessa cosa avverrà in Iraq".

3 aprile 2003

Un elicottero e un aereo Usa sono abbattuti. A Baghdad si combatte ferocemente nei pressi dell’aeroporto. Il segretario alla Difesa britannico, Geoff Hoon, ammette l’uso di cluster bomb. Il governo inglese sollecita caldamente il premier Tony Blair a non consegnare i prigionieri iracheni agli Usa, che li deporterebbero a Guantanamo.

3 aprile 2003

Il segretario di Stato americano Powell, in visita a Bruxelles per tentare di ricucire lo strappo tra Usa e una parte dei paesi della Ue, parla genericamente di un ruolo dell’Onu in Iraq dopo la conclusione della guerra, senza specificare quale tipo di ruolo.

4 aprile 2003

La TV irachena mostra Saddam Hussein, rilassato, in un bagno di folla. A un posto di blocco presso Baghdad, due ragazze (una è incinta) compiono un attentato suicida in cui muoiono 3 marines. Bassora, ora anche senza acqua, resiste ancora agli inglesi. Il Congresso Usa stanzia 79 miliardi $, chiesti da Bush per vincere la guerra ma che bastano solo per il primo mese di attacco.

5 aprile 2003

Due colonne di mezzi blindati entrano a Baghdad sparando, 1000 soldati iracheni cadono nella difesa della capitale. Saddam Hussein incita gli iracheni ad attaccare l’invasore, ma la guardia repubblicana sembra dissolta e moltissimi civili sono in fuga, anche se la battaglia in città continua. Bush trionfante declama: "La liberazione dell’Iraq si va estendendo di villaggio in villaggio, di città in città".

6 aprile 2003

Le truppe britanniche entrano a Bassora, quelle americane prendono Kerbala – dove secondo fonti Usa sono uccisi 400 miliziani su 500 – e l’aeroporto di Baghdad; continua l’assedio della capitale.

7 aprile 2003

Continua accanita la battaglia a Baghdad. Si diffonde la voce dell’uccisione a Bassora di Ali Hasan al Majid, cugino di Saddam e detto ‘Ali il chimico’ perché considerato il responsabile dell’attacco contro il villaggio kurdo di Halabja sferrato nel 1988 con l’uso di gas letali: in realtà la sua villa è bombardata, ma il suo corpo non si trova e la notizia della sua morte non è confermata dal Comando centrale (Ali il chimico sarà infatti arrestato successivamente). I servizi segreti americani annunciano la clamorosa scoperta di ogive al sarin e all’iprite: in seguito ammetteranno che si tratta di tutt’altro, forse vernici o materiale edile.

8 aprile 2003

Gli Usa presentano il conto al giornalismo non embedded. Un raid aereo colpisce la sede di Al Jazeera uccidendo un corrispondente di origine giordana. Anche i vicini uffici di Abu Dhabi TV sono presi di mira dai tank americani che provocano danni ma nessun ferito. Un carro armato fa fuoco contro l’hotel della stampa, il Palestine, uccidendo tre giornalisti, un giordano, uno spagnolo e un ucraino. Difficile credere alle giustificazioni degli americani che parlano di errori o di autodifesa da fantomatici cecchini: il Pentagono è stato tempestivamente informato dell’ubicazione degli uffici delle televisioni, al Palestine non c’è mai stato nessun cecchino, secondo il ministro della Difesa spagnolo l’hotel della stampa è stato dichiarato obiettivo militare da giorni.

9 aprile 2003

Baghdad cade ed è occupata dalle truppe americane, la statua – simbolo di Saddam Hussein in piazza Paradiso è abbattuta, gruppi di sciacalli si danno a devastanti saccheggi al grido di "W Bush", sotto gli occhi benevoli degli occupanti. Saddam e gli esponenti del regime baatista sono scomparsi: è colpito con 4 bombe da una tonnellata un palazzo in cui dovrebbero trovarsi il dittatore e i suoi due figli, ma tra le vittime non si trovano i loro corpi.

Con l’ingresso in Baghdad gli Usa celebrano il loro trionfo. Appena entrato in città, un colonnello americano afferma esultante: "E’ tutta nostra!" e la discutibile esclamazione diviene un titolo sparato dal "Los Angeles Times" il 7 aprile. Le immagini che mostrano l’abbattimento della statua di Saddam, girate in modo da non far capire quanto poco numerosi siano gli iracheni che partecipano all’evento, sono ossessivamente trasmesse dai teleschermi di tutto il mondo.

Gli Usa non attendono di completare la conquista del paese per decidere chi guiderà l’Iraq postbellico: Jay Gardner, un generale in pensione amico di Rumsfeld e strettamente legato alla lobby ebraica, dirigente di una società di alta tecnologia missilistica che ha come maggior cliente il Pentagono. La massima autorità civile dell’Iraq sarebbe così un ex militare legato all’industria delle armi la cui società ha appena bombardato lo sventurato paese. La scelta non sembra turbare la maggior parte dell’opinione pubblica americana, anzi la rivista "Fortune" è dell’avviso che Bush non poteva scegliere meglio. Non mancano tuttavia le polemiche: dopo nemmeno un mese Gardner sarà opportunamente sostituito da Paul Bremer, un civile, per quanto sicuramente "falco". Accanto al viceré americano che eserciterà il potere reale, una serie di iracheni anti – baatisti ampiamente finanziati dagli Usa e dalla reputazione dubbia, come il bancarottiere Ahmed Chalabi e il collaborazionista Kanaan Makiya (sostenitore fin dal 1991 dell’occupazione permanente dell’Iraq da parte degli Usa), dovrebbero entrare a far parte di una istituzione senza poteri autonomi, che in qualche modo appaia "rappresentativa" del popolo iracheno. Per far fronte alle richieste internazionali di una gestione Onu dell’Iraq postbellico, Bush e Blair ricorrono concordemente all’ambigua formula del "ruolo vitale dell’Onu". Ripetutamente richiesto di chiarimenti, Bush infine spiega che ruolo vitale vuol dire "aiutare il popolo iracheno a vivere liberamente, cioè cibo medicine aiuti contributi" e anche "aiutare il governo ad interim a stare in piedi finché non salterà fuori il governo reale": prospetta cioè un governo d’occupazione a tempo indeterminato, con l’Onu a fare da copertura e a distribuire un po’ di generi di sussistenza.

Il vice presidente americano Cheney si applica subito ai calcoli sulla produzione petrolifera ottenibile entro la fine dell’anno; ritiene che sarà possibile estrarre 2.500.000 barili al giorno, come nel 1988, e mette le mani avanti affermando che l’Onu non è attrezzata per la gestione dei medesimi: che si limiti a fornire aiuto umanitario. Tutti i campi petroliferi sono ben presto portati sotto il controllo americano (13 aprile), e la Casa bianca si premura (16 aprile) di chiedere che l’Onu tolga le sanzioni all’Iraq, ora che è libero (e sblocchi così il petrolio iracheno a vantaggio degli invasori).

Intanto, gli occupanti consentono di fatto, e probabilmente favoriscono, appropriazioni, saccheggi e devastazioni indiscriminati, compiuti anche a mano armata, tali da generare nella popolazione un profondo senso di insicurezza e da distruggere quanto era sfuggito ai bombardamenti di due guerre. Mentre le truppe statunitensi si premurano di proteggere solo il ministero del Petrolio, gli altri ministeri sono devastati, sono saccheggiati gli ospedali, sono depredati i musei. Anche il Museo nazionale, in cui sono esposti i cimeli più preziosi delle civiltà fiorite sul territorio iracheno dal 7000 a.c al 1000 d.c., è invaso dai vandali, dopo che la cannonata di un tank Usa ne ha distrutto il portone d’ingresso: i marines americani, chiamati in soccorso, si rifiutano di intervenire, 1700 reperti sono distrutti o trafugati; anche la biblioteca è incendiata, come ai tempi dell’invasione mongola. Migliaia di anni di storia, la testimonianza di tante antiche civiltà, la memoria di un paese sono cancellate: nel progetto americano di balcanizzazione dell’Iraq, tutto ciò che rappresenta un elemento di unità e di coesione, oggi la storia e la cultura, domani le istituzioni unitarie, deve essere distrutto. E forse, nello scontro epico tra civiltà occidentale e barbarie, è meglio far dimenticare che il barbaro Iraq è culla di civiltà millenarie, cosa che non può dirsi per il suo civile ‘liberatore’. I saccheggi erano comunque attesi: già nei giorni precedenti la guerra, trafficanti d’arte di ogni dove erano giunti in Giordania e in Kuwait, ben forniti di dollari. L’incuria americana arriva al punto di abbandonare a se stessi persino i siti nucleari civili, la cui localizzazione è ampiamente conosciuta, lasciando che il materiale radioattivo ivi presente resti in balia dei saccheggiatori per una settimana: niente male per un governo ossessionato dal timore che i ‘terroristi islamici’ entrino in possesso di armi nucleari, e che per giustificare la guerra ha quotidianamente insistito sul pericolo di un passaggio delle supposte armi di distruzione di massa irachene a gruppi terroristi.

10 aprile 2003

A Baghdad un attacco suicida contro un carro armato uccide 3 marines. A Najaf, il leader religioso sciita Abdul Majid al Khoei, filobritannico e favorevole all’invasione, appena rientrato dall’esilio, è pugnalato nella grande moschea dell’imam Ali, assieme al suo assistente e ad altre 4 persone, forse ad opera degli sciiti radicali di Moqtada al Sadr, contrari alla aggressione angloamericana. Al nord i peshmerga kurdi, da soli e senza coordinarsi con gli americani, si impadroniscono di Kirkut; suscitano così le minacce e le proteste della Turchia, che dopo poche ore invierà propri osservatori nel Kurdistan.

11 aprile 2003

I militari americani ricevono il famoso mazzo di carte con le immagini di faccia e di profilo degli ex potenti del regime baatista, ora ricercati. I generali israeliani premono perché sia invasa la Siria, che a loro avviso sostiene il ‘terrorismo’ e accoglie i dirigenti iracheni in fuga.

12 aprile 2003

In tutto il mondo si svolgono manifestazioni contro la guerra. Bush riscontra a modo suo le pressioni interne e israeliane che mirano ad un’invasione della Siria: "Io penso che noi crediamo che ci sono armi di distruzione di massa in Siria…Adesso siamo in Iraq e la seconda cosa riguardo alla Siria è che ci aspettiamo collaborazione".

13 aprile 2003

Tikrit cade senza resistenza. A Najaf si svolge una manifestazione unitaria degli sciiti, sia seguaci del più moderato Ali al Sistani che seguaci del radicale Moqtada al Sadr, con l’intento di mettere fine alla rivalità interna.

13 aprile 2003

Il segretario di Stato statunitense Colin Powell e il ministro degli Esteri britannico Jack Straw confermano le minacce alla Siria, accusata di possesso di armi di distruzione di massa, sostegno al terrorismo, appoggio ai ricercati iracheni; a nome della Ue, Xavier Solana chiede agli Usa cautela, mentre la Siria si dichiara pronta ad accogliere gli ispettori dell’Onu .

15 aprile 2003

A Nassiriya gli imam sciiti guidano una manifestazione di 20.000 persone che ha per slogan "Sì alla libertà, sì all’Islam, no all’America, no a Saddam". Nella stessa città si tiene un po’ sotto tono la riunione degli oppositori iracheni a Saddam disposti ad accettare l’occupazione: manca lo Sciri (il suo leader Abdel Aziz al Akim afferma di non volersi mettere sotto la protezione Usa), manca Chalabi che manda un rappresentante; sono presenti i due partiti kurdi Upk e Pdk, il Movimento di intesa nazionale (formato da ex ufficiali e transfughi di regime), i sostenitori della vecchia monarchia, capi clan e notabili vari. Insieme approvano un documento secondo il quale l’Iraq sarà democratico, non basato su identità comunitarie, federale; il documento chiede rispetto per il ruolo delle donne, lascia aperta la discussione sul ruolo della religione, decreta lo scioglimento del partito Baath.

15 aprile 2003

Il Parlamento italiano approva, senza avallo dell’Onu né della Ue, l’invio di 2500 carabinieri in Iraq, con la giustificazione che devono "proteggere gli aiuti umanitari". Margherita, maggioranza Ds, Udeur e Sdi decidono di astenersi alla Camera e di non partecipare al voto in Senato (dove l’astensione equivale a voto contrario).

16 aprile 2003

Da due giorni a Mossul i marines sparano sulla folla che protesta contro il nuovo governatore imposto dagli americani: i morti sono almeno 10 e centinaia i feriti. A Baghdad è catturato Abu Abbas, il leader del Fronte di liberazione della Palestina che ebbe un ruolo di primo piano nel dirottamento della nave italiana Achille Lauro, avvenuto nel 1985. Abu Abbas risiede notoriamente a Baghdad da molti anni, protetto dall’immunità diplomatica, ed è stato il tramite dei finanziamenti iracheni ai palestinesi; tutte le sue condanne sono cadute dal 1993, in base agli accordi di Oslo di cui è stato tra l’altro un sostenitore, e per questa ragione non può essere perseguito: nonostante ciò la sua presenza a Baghdad è contrabbandata come prova dei legami tra l’Iraq e il terrorismo (Abu Abbas morirà prigioniero degli Stati uniti, in circostanze molto sospette, l’8 marzo 2004).

16 aprile 2003

La Siria propone la rinuncia verificata di tutto il Medio oriente, Israele compreso, alle armi di distruzione di massa.

17 aprile 2003

A Baghdad è catturato Barzan al Tikriti, fratellastro di Saddam Hussein e capo dei servizi segreti.

18 aprile 2003

Dopo la preghiera del venerdì, migliaia di iracheni manifestano contro l’occupazione. Partono gli appalti per la ricostruzione: la Bechtel ottiene un contratto da 680 milioni $ per le infrastrutture: i subappaltanti potranno anche non essere americani. Il capo degli ispettori dell’Onu Blix commenta in un’intervista la pretesa statunitense di cessazione dell’embargo all’Iraq affermando: "Non siamo cani al guinzaglio".

19 aprile 2003

Gli Stati uniti iniziano a privatizzare l’ordine pubblico iracheno, decidendo di appaltarlo a società private. La teoria di Rumsfeld sul corpo di spedizione ‘leggero’ porta, infatti, allo spostamento di attività non strettamente militari dall’esercito a società che si occupano di sicurezza. Queste troveranno in Iraq campo sempre più fertile per i propri affari: dalla logistica e dalla protezione a persone e cose passeranno ad assumere anche compiti militari, spesso assai rischiosi, giungendo a costituire il terzo esercito – per ordine di grandezza – dopo quello statunitense e quello britannico.

21 aprile 2003

Accolto da manifestazioni di protesta, Gardner giunge a Baghdad e dichiara: "Staremo qui tutto il tempo che ci vorrà".

22 aprile 2003

A Kerbala migliaia di sciiti stanno compiendo in questi giorni il rituale pellegrinaggio sulla tomba dell’imam Hussein: alla ricorrenza religiosa dell’Ashura ( che ricorda la morte di Hussein) quest’anno si è sovrapposto l’ultimatum Usa, quindi celebrazioni e pellegrinaggio sono stati rinviati alla ricorrenza dell’Arbain (il quarantesimo giorno di lutto). I pellegrini manifestano la loro insofferenza nei confronti degli invasori, lanciano slogan contro gli Stati uniti e Israele, e a favore di uno stato islamico. La Casa bianca, credendo di scorgere dietro l’insofferenza degli sciiti oscure macchinazioni straniere, dichiara per bocca del suo portavoce Ari Fleischer che non tollererà interferenze in Iraq e che ha già avvertito l’Iran in tal senso.

23 aprile 2003

In Italia, il premier Berlusconi, confermando uno scoop del quotidiano "La Repubblica", rivela che il Sismi ha collaborato con gli alleati in Iraq: "La nostra posizione nella coalizione non è mai stata in dubbio", afferma, smentendo le sue passate rassicurazioni circa la non partecipazione dell’Italia al conflitto. Del resto è ormai risaputo che ad aver confezionato la falsa prova di un acquisto, da parte dell’Iraq, di uranio dal Niger è stato proprio il Sismi.

24 aprile 2003

Il vice premier iracheno Tarek Aziz è nelle mani degli americani, che sperano di ottenere da lui utili informazioni: secondo i media è stato catturato in modo rocambolesco ma senza sparare un colpo, secondo i suoi familiari si è più semplicemente consegnato dopo aver trattato la resa.

26 aprile 2003

A Baghdad un deposito di munizioni esplode e distrugge 4 case, probabilmente per un errore delle truppe americane: centinaia di iracheni protestano sul luogo del disastro. Manifestazioni contro la coalizione si svolgono anche a Mossul e a Najaf.

28 aprile 2003

Il ministro statunitense della Difesa, Donald Rumsfeld, arringa le sue truppe nel Golfo: "Siete già nella storia" – declama – "è iniziata l’era dell’attacco preventivo"; aggiunge che gli Usa non permetteranno mai un governo islamico in Iraq, nemmeno in seguito a una eventuale vittoria elettorale di partiti islamici. Si svolge la prevista riunione della opposizione irachena a Saddam Hussein, anche questa volta con varie defezioni: mancano i leader dei due partiti kurdi Talabani e Barzani, manca Chalabi; sono presenti invece i delegati dello Sciri. Nel frattempo migliaia di sciiti manifestano chiedendo una maggior rappresentanza per i leader religiosi.

29 aprile 2003

A Falluja, le truppe Usa sparano, provocando 13 morti e 75 feriti, su una manifestazione che chiede il ripristino delle normali attività nella scuola, ora trasformata in quartier generale degli occupanti. Anche a Mossul le truppe sparano su una manifestazione, causando 8 morti. Rumsfeld formalizza il trasferimento delle basi militari americane dall’Arabia saudita al Qatar.

30 aprile 2003

A Falluja per il secondo giorno consecutivo l’esercito americano spara sulla folla causando morti. Donald Rumsfeld, di nuovo a Baghdad dopo 20 anni, dichiara che l’esercito americano rimarrà in Iraq "per tutto il tempo necessario", si rivolge agli iracheni con parole retoriche ("per i miei figli e nipoti voglio le stesse cose che voi volete per i vostri figli e nipoti") e poco veritiere (quando trasforma l’opposizione all’occupazione nell’opera di "mercenari" venuti dall’estero per destabilizzare "l’Iraq democratico"). A Baghdad si incontrano anche i principali leader dell’opposizione irachena a Saddam, per esaminare i risultati del vertice del 28 aprile e discutere del dopoguerra: sono presenti il bancarottiere Ahmed Chalabi, Jalal Talabani dell’Upk, Massud Barzani del Pdk, il leader dello Sciri Abdel Aziz al Hakim.

1 maggio 2003

Sulla portaerei statunitense Abraham Lincoln, George W. Bush scende in divisa da un elicottero e dichiara la fine della guerra. Intanto da Washington filtra la notizia che Jay Gardner sarà affiancato o più probabilmente sostituito da Paul Bremer, il quale avrà l’incarico di scegliere i membri del governo provvisorio iracheno. Bremer in passato ha molto lavorato per l’amministrazione degli Stati uniti: è stato collaboratore, come ‘esperto in terrorismo’, di sei segretari di Stato, tra i quali Kissinger; in seguito, passato al settore privato, è stato assunto alla Kissinger Associates.