Gaza!  (gennaio 2009 – m.m.c.)

 

L’ultimo, tremendo attacco portato da Israele al popolo di Gaza non si colloca, come vuole la propaganda, nella categoria del conflitto o della guerra. Non è conflitto l’attacco portato da cielo, mare e terra da forze armate fra le più potenti del mondo contro un popolo pressocché inerme, con aerei da guerra, bombe sganciate sulle case, le scuole piene di bambini, le moschee, gli ospedali, le ambulanze, le gallerie sotterranee - che, miracolo di resistenza, portavano il cibo negato dall’assedio- allo scopo di ammazzare più persone possibile e lasciare un cumulo di macerie. Tutto questo appartiene ad altre categorie: sterminio, distruzione, annientamento. Ciò cui abbiamo appena assistito non è che l’ultima vicenda in ordine di tempo di un “conflitto” che non è tale da molto tempo, perché di conflitto si poteva parlare quando allo stato sionista si contrapponevano, sia pure con forze assai più modeste, gli stati arabi confinanti: un conflitto asimmetrico è esistito dunque fino, e non oltre, la pace separata con l’Egitto del marzo 1979. Da allora, gli attacchi israeliani contro i palestinesi - così come contro il debole, destabilizzato stato libanese - sono tipiche espressioni di colonialismo, dell’espansione e di una brutale dominazione coloniale israelo- occidentale nel Medio Oriente, sorretta altresì dagli arabi fiancheggiatori, Egitto soprattutto.

 

Coerentemente al fatto che non vi è un conflitto (come tale potenzialmente componibile), dalla fine degli anni Settanta non c’è più stato neppure un mediatore, né colloqui di pace, nel senso proprio di questi termini. Vale la pena di ricordare le tappe del presunto, ma di fatto inesistente, processo di pace degli ultimi trent’anni, per capire quanto ci si possa aspettare dalla sua annunciata continuazione. Un mediatore vero e proprio avrebbe potuto essere l’Arabia saudita che, nell’estate 1981, propose un piano basato sui “due stati indipendenti”, sulla falsariga delle risoluzioni dell’Onu, più avanti periodicamente riproposto e sottoscritto da 57 nazioni, oltre che dalla Conferenza islamica, come condizione per riconoscere Israele o normalizzare i rapporti con esso. Israele rispose allora con l’aggressione al Libano, il bombardamento dei campi profughi palestinesi, il massacro di Sabra e Shatilla concordato con i suoi alleati falangisti; respinse altresì, nel settembre 1982, il modestissimo ‘piano Reagan’ basato su una parziale autonomia dei Territori. Nella primavera 1984, alla proposta di Yasser Arafat, analoga a quella saudita, di colloqui di pace sotto l’egida dell’Onu diretti ad applicarne le risoluzioni, il governo israeliano rispose che “l’Olp è terrorista” ed ufficializzò, con Yitchaq Rabin, il “diritto a colpire la resistenza araba in qualunque luogo del Mediterraneo”, mentre Shimon Peres interdiceva al suo partito addirittura la possibilità di riaffacciare il discorso dei due Stati e del rapporto con l’Olp.

Esemplare fu, in seguito, tutta la partita del piano Schultz, “terra in cambio di pace” (febbraio 1988), con Israele a dettare ordini al segretario di Stato americano perché ritirasse i punti qualificanti del piano e cessasse i rapporti con i rappresentanti palestinesi: Schultz obbedì e venne pure chiusa la sede dell’Olp a New York. Ad illuminare ulteriormente la figura del sedicente mediatore americano seguì, alla fine di quell’anno, la negazione del visto a Yasser Arafat, che doveva tenere un discorso all’Onu. Pensare che a tutt’oggi la propaganda occidentale rammenta il ‘piano Schultz’ come fiore all’occhiello della diplomazia americana nel Medio Oriente… Ma continuiamo. L’anno successivo, la riproposizione da parte statunitense di un ‘piano Backer’ – già più modesto in partenza del precedente- ottenne come risposta, per bocca di Yitzak Shamir, che “uno stato palestinese non può coesistere con Israele”, nel quadro della ribadita necessità storica della “grande Israele”, e che l’Olp, per rendersi “accettabile” dalla predetta entità, poteva “fare una cosa sola: sciogliersi”.

 

Negli anni Novanta, un Arafat prossimo alla disperazione varò una politica iper realista, nel tentativo di ottenere un minimum di autonomia e la fine delle aggressioni israeliane, dichiarandosi disponibile ad una concessione dietro l’altra. Fu la volta dell’accordo preliminare su Gaza e l’area di Gerico del maggio 1994, riscritto l’anno successivo come ‘accordo sulla Cisgiordania e Gaza’ che risultò utile praticamente solo alla formalizzazione delle richieste israeliane: il monopolio dei controlli alle frontiere e addirittura sui passaggi fra Gaza e la Cisgiordania, la restrizione dell’export di prodotti palestinesi , sottoposti a 60 categorie tariffarie, quote e standard tali da non consentire alcuna concorrenza a quelli israeliani, la facoltà dell’esercito di presidiare le zone intorno alle colonie ebraiche e le strade di collegamento fra i Territori ed Israele, inclusa la possibilità di ricercare ed arrestare coloro che a propria discrezione considerava potenziali aggressori. Le violenze e la colonizzazione israeliane, in compenso, continuarono e, come noto, l’assassinio di Rabin pose fine anche a quel tentativo. Fu poi la volta dell’accordo di Wye River, nell’ottobre 1998, in virtù del quale l’Anp doveva reprimere la resistenza in cambio del ritiro israeliano da Gaza e dal solo 13% della Cisgiordania, assottigliatosi all’11% nel 1999. Infine, la farsa di Camp David del luglio 2000: no al ritiro israeliano dai Territori come definiti dall’Onu, difesa degli insediamenti colonici, no ad uno Stato sovrano palestinese, no al rientro dei profughi, con l’aggiunta provocatoria della pretesa al controllo israeliano sulla Spianata delle moschee, luogo sacro dell’Islam, e di quattro ‘cantoni’ circondati e controllati da Israele, cioè dei bantustan, in luogo dello Stato negato ai palestinesi dal 1948. E nulla di ciò venne messo per iscritto: così da permettere al presidente americano Clinton, seguito dagli alleati europei, di dichiarare che l’israeliano Barak aveva fatto offerte “generose” ai palestinesi e addossare a questi ultimi il fallimento del vertice.

 

Dopo la morte di Arafat (probabilmente assassinato), i colloqui del patetico Abu Mazen, Annapolis eccetera, non fanno parte di un processo di pace, nemmeno ipotetico, ma sono la mera storia della capitolazione del gruppo dirigente del Fatah e del ruolo di un moderno Quisling: se Camp David fu una farsa, qui siamo alla buffonata. La violenza contro i palestinesi, ad opera dell’esercito e dei privati israeliani che hanno occupato le terre, l’espansione continua della colonizzazione hanno accompagnato tutte le tappe descritte e si sono addirittura accentuate dopo la detta capitolazione, costruendo, con la brutalità tipica del colonialismo più sfrenato, il rapporto di forza che ha guidato, guida e guiderà il decantato “processo di pace”: diretto, oramai esplicitamente, ad ottenere la capitolazione di tutti i palestinesi e la cancellazione definitiva dei loro diritti, in nome del “diritto di esistere di Israele”. Quest’ultimo, tragico atto consistito nell’assalto e nella distruzione di Gaza, con un rapporto di vittime 1:100 (per ogni israeliano caduto, cento palestinesi, in luogo delle dieci vittime che costituivano il ‘diritto alla rappresaglia ’ nel conflitto mondiale del Novecento) è lo sfondo per la nuova figura del soi disant mediatore statunitense, Mitchell. Figurarsi i risultati.

 

L’assurdità delle pretese israelo- occidentali è così riassunta da una dichiarazione del leader di Hamas in esilio, Khaled Meshal: “la verità è che Israele cerca un cessate il fuoco unilaterale, che sia osservato solo dal mio popolo, in cambio di assedio, mancanza di viveri, bombardamenti, omicidi, incursioni e nuovi insediamenti di coloni. La logica di chi ci chiede di fermare la nostra resistenza è assurda. Essi assolvono da ogni responsabilità l’aggressore che occupa le nostre terre, armato delle più potenti e micidiali armi di distruzione e condannano la vittima, prigioniera nella propria terra occupata. I nostri modesti razzi artigianali sono il nostro grido di protesta al mondo. Israele e i suoi alleati americani ed europei vogliono farci uccidere in silenzio. Ma noi non moriremo in silenzio. Quello che sta passando Gaza oggi l’aveva vissuto già Arafat. Quando si rifiutò di accettare il diktat israeliano venne imprigionato nel suo quartier generale di Ramallah, circondato da carri armati per due anni. E dato che anche questa mossa non riuscì a fargli cambiare idea, è stato avvelenato… Se questo è il ‘mondo libero ’ di cui Israele sta difendendo i ‘valori’, allora non vogliamo averci nulla a che fare”.

 

Se nulla dunque ci si può aspettare dal ‘mondo libero ’ e dai colloqui diplomatici, non è questa una buona ragione per rinunciare a battersi, anche in occidente, per Gaza e la resistenza palestinese.  Dopo le partecipate manifestazioni di protesta contro l’assalto, è stato rilanciato da più parti il boicottaggio delle merci prodotte in Israele. A giudicare dagli alti lai che provengono dal mondo politico al solo affacciare l’idea si direbbe che dà fastidio, anche se l’impatto economico è modesto, e dunque va bene, come ogni cosa scomoda alla dominazione.  Politicamente, piuttosto che economicamente, ha avuto la sua importanza nella sconfitta del regime dell’apartheid sudafricano. E difatti Miguel d’Escoto Brockmann, nicaraguense, ha aperto il 24 novembre (prima dell’assalto finale dunque) i lavori dell’Assemblea dell’Onu sulla Palestina invitando le Nazioni unite ad ascoltare la società civile più consapevole e seguire il comportamento tenuto verso il Sudafrica “per un’analoga campagna di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni per fare pressione su Israele. Sono stupefatto – ha aggiunto- che si continui ad insistere sulla pazienza mentre i nostri fratelli e le nostre sorelle palestinesi sono crocifissi. La pazienza è una virtù nella quale io credo. Ma non c’è alcuna virtù nell’essere pazienti con la sofferenza degli altri” (il suo bellissimo discorso è stato censurato dai media addomesticati, ottima ragione per divulgarlo).

 

Nella stessa direzione è andata la proposta del premio Nobel per la pace Mairead Maguire, la sospensione dello stato sionista dall’Onu, come deterrente per farne cessare i crimini. Se anche  l’obiettivo è impraticabile per i rapporti di forza, è bene invocarlo, dovunque rivendicando altresì la cacciata degli ambasciatori israeliani, come è accaduto in Venezuela ed in Bolivia; e, non riuscendovi, dichiarare collettivamente di non riconoscere costoro. Dichiarare che le istituzioni colluse non rappresentano quella parte di umanità che vuole giustizia, crearsi propri ambasciatori in Palestina e magari individuare, in luogo dei diplomatici israeliani disconosciuti , un intellettuale ebreo dissidente che sia disposto a questo ruolo. Ilan Pappe, teorizzatore di uno stato multietnico in Palestina, sarebbe perfetto se lo volesse: stando egli a Londra, forse non rischierebbe più di quanto ha rischiato finora con le sue denunce dei crimini del regime. Occorre generalizzare e divulgare l’informazione non addomesticata, come quella che offriamo a fianco (il dossier storico Palestina, aggiornato periodicamente) ed i siti ivi citati, che invece inviano le notizie giorno per giorno. Si devono far conoscere i fatti nudi e crudi della colonizzazione, a partire da lontano, dall’infausta nascita del sionismo. Quanti sanno, per esempio, che il lento genocidio palestinese, programmato alla fine dell’Ottocento, è cominciato negli anni Trenta? Che dura dunque da ottant’anni, in un crescendo documentato e non smentibile di obbrobrio? I fatti, la conoscenza sono più potenti di qualunque arringa per aiutare le persone ad emanciparsi (chi è disposto a farlo, chiaro) dalla propaganda di regime che martella per confondere le menti e rovesciare le parti della ragione e del torto, chiamando criminale chi denuncia i crimini, anziché chi li fa. 

 

Ci sono dei momenti in cui la mobilitazione è un dovere civico e morale, anche quando si è lontani e disillusi dalla politica. Tanto più è un dovere quando le istituzioni sono sorde e complici, come sta accadendo. La  grottesca sottomissione del mondo politico e dell’informazione alle pretese dei sionisti, con la tv italiana ridotta ad un bollettino dell’esercito israeliano, dovrebbe darci una ragione in più, essendo in gioco la libertà di tutti noi, insieme a quella dei palestinesi.