Guerra fredda sempre calda (m.m.c. agosto 2008)

Non mi sento Tiresia né Cassandra per aver previsto a breve un seguito caucasico della secessione del Kossovo (v. in questa Rubrica  Kossovo, un’indipendenza dipendente): non sono stata la sola ed era anche troppo facile. La crisi era scritta da tempo nell’oppressione delle minoranze russe abitanti le regioni georgiane dell’Ossezia e dell’Abkhazia – come quelle di Ucraina, Azerbaijan, Moldova – operate dagli estabilishement sorti dal dissolvimento dell’Urss e, in genere, nell’espansione occidentale verso Est. Un’espansione invasiva ed impetuosa, che nulla ha tralasciato sotto l’aspetto economico – con l’irruzione incontrollata del capitale privato incurante di devastanti effetti sociali; con la guerra degli oleodotti e dei gasdotti, per bypassare ed umiliare la Russia- come sotto l’aspetto politico, con l’imporsi di élites voraci e corrotte, supine a Washington quanto aggressive verso il precedente dominatore e verso tutti coloro che non si assoggettano ai nuovi regimi; infine sotto l’aspetto militare, con l’allargamento della Nato a tappe quasi forzate ed il progetto dello Scudo statunitense, assurdamente definito ‘difensivo’, foriero di minaccia atomica contro l’Iran come contro le potenze del Patto di Shangai.

Come noto i due ultimi eventi segnalati sono stati al centro della riunione straordinaria della Nato, svoltasi il 19 agosto a Bruxelles, convocata e dominata dagli Usa. La premessa è stata il consueto rovesciamento delle parti tipico delle analisi e delle strategie statunitensi – l’aggressore georgiano, che ha devastato la capitale dell’Ossezia e provocato 2000 morti oltre a decine migliaia di profughi, è presentato quasi come una vittima del cattivo orso russo, il quale ultimo non aspettava altro che un ‘errore’ per invadere il ‘piccolo stato democratico’ (visione ricalcata pari pari dai commentatori occidentali). Le conseguenze sono state per l’appunto l’accelerazione del processo di ingresso della Nato (la commissione Nato- Georgia che ricalca l’analogo organismo inglobante l’Ucraina, a fronte del ‘congelamento’ del consiglio Nato- Russia) ed il raggiungimento dell’accordo Usa- Polonia per l’installazione di una batteria missilistica completata da radar piazzati nella Repubblica ceca.

I due fatti, gravi e precedentemente calcolati, smentiscono da sé la presunta ‘improvvisazione’ dell’attacco georgiano all’Ossezia che, secondo le analisi interessate e parziali di molti commentatori, avrebbe preso alla sprovvista l’Europa come gli Usa. Ma quale improvvisazione. Lo schiavetto di Washington Saakashvili, che titola strade ed infrastrutture al presidente Bush e non perde occasione per definire il suo paese ‘fedele all’America’ o ‘baluardo democratico in Asia centrale’ (democrazia all’americana s’intende: con corredo di bavaglio alla stampa, processi farsa, oppositori politici misteriosamente scomparsi ecc) non aveva la volontà né la possibilità di fare, neanche di pensare, alcunché di indipendente. E’ Washington il manovratore della crisi, fin dall’inizio, l’ispiratore dell’aggressione all’Ossezia: avendo lo scopo preciso di acutizzare la tensione con l’Est e di compattare un’Europa a tratti titubante – non per indipendenza, della quale ha perso il ricordo, ma per interessi di bottega- nell’urtare il potente vicino.

Un terzo aspetto, collegato al precedente, è la sopravvalutazione che vedo nei commenti di un ruolo mediatore dell’Europa nella crisi. Se titubanza c’era, è evidentemente scomparsa, perché la linea uscita a Bruxelles è quella dura statunitense, corredata dall’ultimatum alla Russia affinché completi il ritiro a tempo record, ed in termini anche formali di voluta umiliazione. Ciò va valutato non tanto in teoria (le guerre fanno sempre schifo ed è credibile che anche i russi, specialmente le bande paramilitari dei cosiddetti ‘cosacchi’, si siano dati ad uccisioni e saccheggi) ma considerando il contesto, lo svolgersi degli eventi, la mancata condanna dell’aggressore georgiano e la mancata previsione di condizioni e di garanzie per la minoranza osseta. Con l’ascesa al potere di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel - celebrati negli Usa ed in Israele in quanto becchini del precedente asse Parigi- Berlino, avente qualche frizzo d’autonomia -  ogni ruolo indipendente, od anche solo mediatore, dell’Europa è purtroppo divenuto illusorio. Poco abbiamo da attenderci da questi personaggi e tanto meno ha importanza, credo, che la Germania preceda l’Italia nel convocare una conferenza internazionale sul Caucaso o che Franco Frattini non si sia affrettato a tornare dalle Maldive. Quanto conta il ministro Frattini sulla scena internazionale? Abbastanza patetica è parsa la sua dichiarazione “abbiamo portato gli Usa sulla linea europea”. Quale linea europea? La linea europea è come sempre quella americana, non bastando qualche ritocco nelle espressioni a modificare la sostanza e le conseguenze delle bellicose dichiarazioni di Bush, della Rice o di Brzezinski, pubblicizzate sulla stampa dei giorni scorsi fino alla noia.

A fronte della predetta sopravvalutazione vedo invece la sottovalutazione, anch’essa consueta, circa il ruolo di Israele, che pure ha una pedina importante nel titolare del ministero della Difesa georgiano ed è per certo il secondo ispiratore dell’attacco all’Ossezia. Tale ruolo, invece, è ben chiaro naturalmente a Mosca che ha convocato l’ambasciatore israeliano per contestare apertamente allo stato ebraico di aver sobillato Saakashvili e foraggiato le truppe georgiane (ma i dettagli, certamente interessanti, non si leggono sulla stampa nostrana). E’ Israele il maggiore interessato, accanto agli Usa, all’accelerazione dello Scudo, in primis in funzione anti- iraniana: solo due mesi fa l’aggressivo stato mediorientale ha fatto la sua prova generale di guerra, debitamente pubblicizzata, con la simulazione dell’assalto all’isola di Creta, che si trova alla stessa distanza del sito di Natanz, da anni non fa che intensificare minacce e mobilitazione contro la repubblica islamica ed è implicato, accanto agli Usa, nella strategia della tensione che si intravede dietro gli attentati terroristici che vi sono compiuti.

Tutto questo non deve indurre a sottovalutare la forza russa. Mosca, mentre non si sogna di affrettare il ritiro patteggiato col presidente francese (è scontato anzi che continuerà a presidiare le due regioni russofile per tutelarne la secessione e che cercherà di completare lo smantellamento degli arsenali georgiani) ha replicato per le rime accusando l’Alleanza sia di aiutare, politicamente e militarmente, “il regime criminale di Saakahsvili”, sia di continuare le provocazioni anti- russe, come definisce l’inglobamento della Georgia nella Nato e l’accordo missilistico Usa- Polonia. Soprattutto vi è il progetto, confermato come tale da fonti russe ma in atto da tempo, di dotare di testate nucleari sottomarini, missili e bombardieri stanziati nella zona di Kaliningrad, sul Baltico (si parla soprattutto dei missili Iskander , leggeri e precisi, difficili da intercettare), nonché di rafforzare le basi in Bielorussia, la fedele repubblica sita fra Russia e Polonia. Dunque, se l’asse Washington- Gerusalemme è stato il primo aggressore, tramite lo staterello georgiano, Mosca è tutt’altro che una povera vittima e la velocità e brutalità della sua risposta militare va tenuta ben presente.

La ripresa a tutti gli effetti della guerra politica est- ovest, che si suole definire ‘fredda’ – ma tale non è mai stata- rende invece condivisibile l’analisi che l’unilateralismo americano sia in grave difficoltà, anche se parlare di “declino americano” è magari prematuro. “Non è più possibile il controllo unipolare del mondo – così ha commentato la nuova crisi il presidente turco Gul, concludendo con qualche ottimismo “un nuovo ordine mondiale deve giocoforza emergere”. Forse più realistico, da questo punto di vista, un commento di Bernardo Valli su “Repubblica” del 20 agosto che, dopo aver osservato il fallimento anticipato del “secolo americano” pronosticato da Francis Fukuyama, vede in suo luogo “un secolo destinato ad essere ritmato dalla competizione tra più potenze…un mondo in cui, nell’attesa di un nuovo ordine, prevale il disordine” .