Ingerenze democratiche ( per ora fallite) in Iran (m.m.c- luglio 2009)

Il tentato golpe colorato

Non era davvero un retropensiero gratuito immaginare che il discorso aperturista del presidente americano verso l’Islam celasse altre intenzioni (vedi in questa rubrica La mano tesa di Barack Obama). Difatti, mentre questi tendeva la mano alla nemica Repubblica islamica, ostentandone uno storico riconoscimento, si muoveva il vasto arcipelago alle dipendenze del Dipartimento di Stato e della Cia (i vari Usip, Usaid, Ned, Institute Albert Einstein, American Enterprise Institute ecc.), investendo i cospicui finanziamenti ricevuti annualmente al fine di destabilizzarla e rovesciarla. Lo charmant, ma pericolosetto, Mister Mano Tesa ha rivolto un cenno critico, nel citato discorso, al golpe americano che spodestò Mossadeq nell’agosto 1953; mentre ne stava preparando un altro contro colui che viene visto come il nuovo Mossadeq, sempre finalizzato, almeno nelle intenzioni statunitensi, ad imporre un regime filo- Usa ed a colonizzare il paese.

Come? In primo luogo, lo abbiamo già ricordato, è in atto da tempo la fibrillazione, in parte eterodiretta, delle minoranze etniche nel Belucistan, le stragi nelle moschee ed altri attentati, un ruolo violento e destabilizzante, dato per certo dagli ambienti governativi, dei Mujaheddin del popolo (ispirati, più che dal popolo, dal Pentagono e da Bruxelles e premiati perciò con una derubricazione dalla lista delle organizzazioni terroristiche). In secondo luogo, c’è stata la manovra post elettorale tesa ad accreditare la vittoria, non verosimile già dai sondaggi, di Mir Hossein Mousavi, l’anima interna più appariscente del tentativo di destabilizzazione. L’uomo è stato scelto con cura: gode (o almeno godeva) di buona reputazione presso molti iraniani, che ne ricordano il ruolo governativo durante la guerra iniziata dal Baath iracheno; è stato appoggiato da Hashemi Rafsanjani, l’ayatollah ultramiliardario che deve le sue iniziali fortune alla dittatura dello Scià, fortune continuate nella Repubblica islamica che l’ha inserito nella struttura del potere con diverse cariche (capo dello Stato, poi del Consiglio costituzionale che vigila sull’equilibrio dei poteri), figura tuttora popolare. Infine Mousavi ha saputo celare i reali obiettivi, economici e politici, dietro una campagna elettorale abile, che prometteva fra l’altro maggiori spazi di libertà al mondo universitario come alle donne. In terzo luogo, il tentato golpe ha potuto contare sulla collaborazione di gestori di reti di telefonia mobile e Internet, in grado di fornire una capillare mappa dei dissidenti, esistenti e potenziali, cui inviare Sms contenenti informazioni pilotate (a cominciare dalla asserita vittoria di Mousavi corredata perfino da un riconoscimento ufficiale), parole d’ordine (Stop Armadi, Dov’è il mio voto, ecc.), video (la morte di Neda attribuita ad un basij, intercettato e misteriosamente rilasciato dai dimostranti, dove però compaiono personaggi legati alla Cia), convocazioni di manifestazioni ed iniziative, segnalazioni sulle novità lanciate da Twitter o Facebook, e così via. (Vedi "Iran: l’informazione come arma di distruzione di massa"; in www.arabmonitor.info ; "Fallisce in Iran la rivoluzione colorata" di Thierry Meyssan, in www.voltairenet.org ; "Gaza- Iran. Figlie di un dio minore e figli di zoccola", in www.fulviogrimaldi.blogspot.com ).

In seguito a tutto ciò, un numero imprecisato di elettori di Mousavi (i due milioni sono frutto certamente di una moltiplicazione: per 5, per 10 o per 20, chissà), ritenendosi frodati, sono scesi in piazza a Teheran per protestare trovandovi un ulteriore ‘innesto’ di elementi pro- Cia con funzioni di provocazione: incendi a sedi governative, sparatorie sui dimostranti, l’attentato al mausoleo di Khomeiny. La speranza di costoro era probabilmente che la fazione uscita ancora vittoriosa nelle urne perdesse le staffe ed attuasse una repressione generalizzata, premessa a sua volta di una ribellione più massiccia. In tal caso sarebbe stato possibile puntare al rovesciamento del vincitore e della Guida suprema a favore di un governo Mousavi, a sua volta immaginato come ponte verso la restaurazione della monarchia Pahlevi, il cui rampollo, Cyrus Reza Pahlevi, si stava scaldando i muscoli (vedi di quest’ultimo "Iran, l’ora della scelta, editore Denoel; Meyssan, "Fallisce in Iran ecc." cit) ovvero ad una repubblica destabilizzata e maggiormente rivolta ad ovest.

Il 27 giugno, il Consiglio dei guardiani della Rivoluzione istituiva una commissione incaricata del riconteggio dei voti nelle sezioni contestate –un campione del 10% circa- avendo l’accortezza di invitarvi i candidati sconfitti: i quali, con meno accortezza, rifiutavano. Al tempo stesso, venivano rilasciati la più parte dei fermati nelle manifestazioni, dopo essere stati interrogati, e trattenuti invece i presunti attivisti ed organizzatori, compresi due funzionari dell’ambasciata britannica; mentre gli organi governativi hanno intensificato la propria contro- propaganda, diretta contro gli elementi filo- occidentali e lo stesso Mousavi, aiutati da grandi manifestazioni che, in contrasto con i contestatori delle elezioni, ne difendevano i risultati. Tutto questo ha avuto il risultato di svuotare gradualmente le piazze della capitale e riportare la situazione sotto controllo .

Il contesto

Nulla di ciò sarebbe potuto accadere se non esistesse, come invece esiste, una dialettica interna vivacissima tra fazioni portatrici di esigenze e proposte – tradotte in programmi elettorali- molto distanti particolarmente sul piano economico e sociale. La fazione rappresentata da Mahmoud Ahmadinejad, favorita dalla Guida suprema Ali Khamenei, difende le riforme intraprese nel primo mandato (estensione del servizio sanitario ad oltre 20 milioni di persone, aumento di stipendi e pensioni, accesso gratuito ai servizi pubblici essenziali per gli inoccupati, lavori di pubblica utilità per incrementare l’occupazione) ed intende anzi estenderle e completarle con prelievi in altre direzioni. Un programma di redistribuzione del reddito ed emancipazione dei ceti meno agiati che naturalmente piace alla maggioranza della popolazione – la quale ricca non è e si preoccupa anzitutto della disoccupazione e della povertà- quanto dispiace alla borghesia iraniana, che si riconosce in Hashemi Rafsanjani ed ha votato per i candidati di minoranza, con preferenza per Mousavi, favorevole fra l’altro alla privatizzazione del petrolio. Lungi dai pensieri di costoro, già ostili alla prima parte del programma, permettere agli avversari di contrastare l’inflazione, scaturita (anche) dall’incremento della spesa pubblica, con prelievi ulteriori sui propri profitti e patrimoni.

Come notavo in una riflessione risalente (Verso un nuovo bipolarismo, settembre 2005, in questa Rubrica) simili progetti politici possono essere definiti ‘conservatori ’ o ‘di destra ’ solo in sistemi oligarchici, come i nostri, dove la dialettica sociale non ha più rappresentanza nella sfera politica, le uniche riforme considerate sono quelle che avvantaggiano la borghesia (o i ricchi, come più vi piace) e, qualunque schieramento si voti, si trova nel piatto la stessa minestra. Leggendo su qualunque giornale o sito occidentale delle vicende iraniane, si vede una realtà rovesciata, dove i progressisti diventano ‘conservatori’ o ‘ultraconservatori’, quando non ‘fascisti’ o ‘populisti’ mentre i conservatori di Rafsanjani, Mousavi ecc. si trasformano immancabilmente in ‘riformisti ’; si legge ancora che a rivitalizzare le radici, un po’ appassite, della repubblica sarebbero questi ultimi e non i radicali di Ahmadinejad che riprendono i temi sociali ed antimperialisti della rivoluzione del 1979. Un ribaltamento totale, dove una verità virtuale si sovrappone alla realtà, sia nel dare notizie (quasi tutte prive di riferimenti a fatti concreti, non verificabili) che nell’interpretarle. Fra i pochi che contrastano questo assurdo capovolgimento delle cose, cito il Campo antimperialista nel cui sito (www.campoantimperialista.it ) si leggono notizie e commenti di tutt’altro segno, molto interessanti, che consiglio leggere per intero ( v. M. Pasquinelli, Il bacio della morte; Redazione, Ne uccide più la penna che la spada, entrambe 26 giugno 2009; Y.B., In Palestina Ahmadinejad stravincerebbe, 27 giugno; L. Mazzei, Israele sta preparando l’attacco all’Iran?, 20 luglio).

Se il ‘golpe colorato ’ si è innestato in questa situazione, tentando di accreditare in tutti i modi immaginabili una vittoria di Mousavi su Ahmadinejad, sarebbe un errore ricavarne che la borghesia iraniana sia compattamente e strategicamente filo- occidentale. Per quanto essa possa guardare all’occidente con occhi diversi dalla fazione radicale, per quanto essa abbia utilizzato a proprio vantaggio la propaganda e le falsificazioni predette ed appoggiato il ‘golpe colorato’, se si passa dalla tattica alla strategia gli elementi organicamente filo- Usa non sembrano prevalere, anzi. Si osservi anzitutto che nessun candidato, neppure lo stesso Mousavi, prevedeva nel suo programma un revirement rispetto al programma nucleare, e che le reazioni occidentali a quest’ultimo, dalle minacce alle sanzioni economiche, non hanno incrinato l’estabilishment. Se mai, è accaduto l’inverso.

Per questa lettura, oltre agli antimperialisti del Campo, cito una fonte non sospetta di simpatie radicali, il "Corriere della sera" (numero del 17 luglio) dove, sotto il titolo "Così le sanzioni aiutano le dittature", Federico Fubini scrive che "questo mese, mentre le democrazie del mondo condannavano il regime di Teheran…Cnooc ha firmato un accordo con la National Iran Oil Company…trivellerà i giacimenti di petrolio di North Pars. Mesi fa Cnooc e Nioc avevano concluso un contratto sulla fornitura di gas per i prossimi 25 anni. Per i cinesi, ma anche per russi e indiani, non è difficile di questi tempi concludere affari con il regime di Ahmadinejad. La pressione occidentale per imporre sempre nuove sanzioni sta crescendo e i francesi di Total, come anche l’Eni, hanno fatto un passo indietro nelle ultime gare sulle concessioni…". Notizia poco commentata, lamenta lo stesso articolista. Ancora. A fine maggio, la ‘guerra dei gasdotti’ iniziata a metà dei Novanta ha visto emergere un vincitore (provvisorio o definitivo, non so), il gasdotto Iran- Pakistan (per ora senza l’India, come inizialmente previsto) che dovrebbe correre per oltre 2000 km e diventare operativo entro 5 anni. Anche questa notizia non ha avuto lo spazio che meritava, se pensiamo alle manovre statunitensi per imporre il gasdotto Turkmenistan- Afghanistan- Pakistan- India: è stato, questo, uno dei motivi dell’attacco all’Afghanistan del 2001, paese che il governo americano calcolava di conquistare e normalizzare in breve tempo (leggi nel dossier Afghanistan a fianco le vicende dell’Unocal ed il revirement verso i Talebani anche per questo aspetto. V.a. www.medarabnews.com La battaglia globale per il gas. La svolta irano- pakistana, giugno 2009; nello stesso sito, Pechino e la copertura internazionale di Teheran, dicembre 2007, sugli accordi plurimiliardari fra Cina ed Iran per la vendita di gas). In tutti i casi citati, che sono brutte notizie per gli Usa come per l’Europa, non risultano esservi state lotte o incrinature significative in Iran: se vi fossero state, penso che la nostra stampa velinara non avrebbe perso l’occasione di suonare la grancassa a favore di chi avesse preso le parti dell’Occidente; mentre ha preferito glissare.

Tanti maestri di danza

Non dimentichiamo poi che l’Iran ha un ruolo di osservatore permanente nel Patto di Shangai, che questa alleanza ha aspetti economici, politici e militari, e che dal 2004 Teheran partecipa alle manovre militari congiunte, oltre che ai vertici economici del Patto, le cui finalità sono chiaramente l’estensione del controllo sull’intera regione, conteso all’occidente. Da questo punto di vista, oltre che per il possesso di materie prime cosiddette strategiche, mi pare giusto affermare che l’Iran è digià una potenza regionale, piuttosto che aspirare ad un tale ruolo. Se nella borghesia iraniana vi sono con probabilità elementi strategicamente filo statunitensi, quanti siano, se Mousavi possa a tutti gli effetti essere considerato in questo modo, non so dire. Piuttosto mi pare azzardato credere che un disegno di destabilizzazione, teso o cambiare programmi, sistema di comando, alleanze internazionali, o di colonizzazione - che si intuisce nei desideri e negli intenti degli Usa e dei suoi alleati - possa riuscire con la facilità che i suoi architetti parevano supporre, quasi il mondo sia popolato di burattini dei quali basta tirare i fili, sia fatto di creta pronta a farsi modellare. Thierry Meyssan, (che, a sua volta, indulge spesso a visioni del genere), segnala interessanti riunioni e seminari tenuti fra aprile e maggio nell’ambito dell’American Enterprise Institute, per iniziativa dell’ onnipresente Michael Ledeen e di Morris Amitay, personaggio di spicco della lobby sionista, con la partecipazione fra gli altri dell’ambasciatore Bolton, dedicati alle elezioni iraniane e ruotanti su una ipotizzata "grande contrattazione: accetterebbe Mosca di lasciar cadere Teheran in cambio della rinuncia di Washington allo scudo antimissile in Europa centrale?" (T. Meyssan, Fallisce in Iran la rivoluzione colorata, cit) Ovest ed Est si contendono metro a metro, per così dire, le boccheggianti repubbliche post sovietiche, e Mosca accetterebbe di lasciar cadere l’Iran? E l’Iran, compresa la sua ghiotta borghesia, si lascerebbe cadere, per intero, nelle braccia dello squalo statunitense? E perché mai? Francamente, se il raduno di tanti pezzi da novanta delle strategie produce un simile risultato, si può magari capire perché gli Usa abbiano fatto fiasco, almeno nell’obiettivo preferito. Essi seminano zizzania, attizzano fuochi, profittano di ogni divisione – politica, sociale, religiosa, etnica – sperando che il seme attecchisca e porti loro qualche frutto. Questo riescono a fare, sempre, il che non significa centrare gli obiettivi. Anzi, il colpo non andato a segno può talvolta tornare al mittente. Chi semina vento…

Non c’è un solo maestro a menare le danze, come cercano di farci pensare da questa parte del mondo. Non ce ne sono nemmeno due (Est- Ovest), ce ne sono tanti. E nessun maestro di danze, o aspirante tale, ama lasciarsi guidare da un altro. Se la fazione dominante in Iran si è mossa con agilità, dribblando finora gli ostacoli, si intuisce che anche questi ultimi hanno cercato di guidare la danza, di usare per i propri fini il progetto statunitense (nonché europeo ed israeliano) di rovesciare Ahmadinejad e Khamenei. Si intuisce pure che, all’interno degli oppositori, neanche tutti i ballerini semplici volteggiano seguendo un tracciato armonico. Arabmonitor, citando il ministro per la Sicurezza iraniano Mohseni Ejei, scrive in proposito che il fronte di oppositori è risultato "composto da individui e gruppi che condividevano ‘lo stesso obiettivo, ma per ragioni diverse ’. Il ministro ha così fatto l’elenco della bizzarra alleanza che andava dagli Stati uniti e da ambienti occidentali attraverso gruppi di oppositori interni e di oltreoceano, dai comunisti, ai monarchici, ai democratici, a gruppi politici- religiosi interni sino a Rafsanjani ‘per il quale la sconfitta di Ahmadinejad costituiva un’assoluta priorità ’ " ( H. Piccardo, "Complotto contro la rielezione di Ahmadi Nejad" in www.arabmonitor.info , 18 luglio; dove anche le repliche governative al noto sermone di Rafsanjani).

E come guardare i giovani dei ceti più agiati, particolarmente gli studenti universitari che si sono compattati dietro Mousavi, animando la protesta di piazza a Teheran contro Ahmadinejad? Non certo come dei burattini, o come mera massa di manovra, osserva l’antimperialista Moreno Pasquinelli aggiungendo che le loro proteste "nascono da un disagio forte e reale, rivendicano diritti democratici sulla carta sacrosanti. Eppure, come accadde sia nel 1999 che nel 2003, l’appoggio dichiarato da parte degli Usa e degli europei è come il bacio della morte, esso suona le campane a morto della protesta di piazza seguita alle elezioni. Se la protesta avesse mai avuto qualche chance di dilagare fuori dal perimetro della capitale, adesso, dopo l’ostentato sostegno imperialista e sionista è destinata a scemare e a rifluire, portandosi appresso l’onta di essere fiancheggiata dai peggiori nemici del paese" (M. Pasquinelli, Il bacio della morte, cit.). Ha ragione: è una danza triste, questa, su un terreno scivoloso, che si ripete da tempo.

Evidentemente la fazione radicale di Ahmadinejad non ha saputo attrarre questi giovani, forse neanche capirli. Tuttavia, che la repressione nei loro confronti sia generalizzata o addirittura spietata, è un’altra aggiunta creativa , chiamiamola così, della campagna occidentale. Non intendo davvero mettere la mano sul fuoco per chicchessia, semplicemente non lo trovo verosimile. Vuoi perché quella campagna non porta fatti concreti bensì verità perentorie quanto immaginifiche, vuoi perché negli anni scorsi non s’è visto nulla del genere, vuoi infine perché i vincitori delle elezioni si stanno muovendo bene, puntando chiaramente a rilanciarsi ed attrarre altri consensi, proprio sfruttando il fiasco degli avversari. Perché mai dovrebbero fare loro un simile regalo, quando non occorre un’aquila per capire che costoro si augurano il pugno di ferro? (A proposito, bella solidarietà ai manifestanti...) Almeno si aspettino i processi, le inchieste, per giudicare. Se poi pensiamo al pulpito donde viene la predica, ai lager americani e dei loro alleati che risuonano delle urla dei torturati, agli eccidi di massa nelle zone di guerra, ed anche alle manifestazioni regolarmente caricate nei paesi occidentali non appena danno fastidio, il pulpito è talmente inverosimile da lasciare solo il dubbio se l’ascoltatore di turno (sono tanti) è allocco per davvero, o lo fa.