La mano tesa di Barack Obama (maggio 2009 –m.m.c)

Volendo tracciare un bilancio dei primi mesi di Barack Obama (vedine anticipazioni in New dream ovvero un vecchio incubo), il pensiero corre per prima cosa al drammatico esodo di civili, in fuga dai raid aerei che martellano la zona confinaria pakistana: sono oramai 2 milioni i disperati, privati di tutto, in mezzo ai quali si aggirano trafficanti di bambini, in cerca di facili prede fra le decine migliaia di orfani e piccoli derelitti. Una "catastrofe umanitaria", conferma l’Onu: che, peraltro, si guarda bene dal far seguire alla denuncia la individuazione dei colpevoli, quasi piovesse dal cielo per fatti naturali anziché ad opera dell’uomo. Il cambiamento, ovvero la "mano tesa" di Obama, per usare l’immagine del suo discorso più noto, è consistito dunque, in quell’area, nell’escalation dello stragismo a buon mercato assicurato dai droni omicidi, in 17.000 soldati statunitensi in più entro l’estate, nella ricostituzione delle milizie mercenarie, delle quali ha dato notizia la stampa americana, nella task force segreta alla quale sono attribuibili, con probabilità, diversi attentati ‘sospetti ’ e non rivendicati, destinati ad incrementare tensioni e guerre religiose fra sunniti e sciiti; infine nella ripresa della evangelizzazione forzata che vede protagonisti i cappellani al seguito delle truppe, circa la quale si è finta meraviglia quando è stata rivelata.

Vogliamo trovare a tutti i costi un cambiamento, un’apertura, in questo scenario vieppiù da incubo? L’approccio multilaterale che manda in visibilio gli obamisti, pur non essendo affatto una novità, effettivamente si è accentuato rispetto all’epoca bushista, a conferma di una vecchia vocazione dei Democrats. Esso riguarda in primo luogo gli alleati dell’area interessata, Gillani- Zardari in Pakistan, Karzai in Afghanistan, i quali, convocati alla Casa Bianca nei primi del mese, hanno ribadito il loro appoggio alla guerra americana, naturalmente in cambio di un surplus di finanziamenti per i rispettivi, traballanti governi. L’effetto è stato immediato, con l’escalation stragista degli aerei senza pilota, non solo statunitensi ma locali: non volendo, particolarmente i pakistani, subire l’onta di una vistosa diminuzione di sovranità, poiché in teoria spetta alle forze armate nazionali controllare il territorio. In secondo luogo, l’approccio plurale riguarda gli storici alleati Nato, gli stati europei, chiamati ad intensificare i già notevoli "sforzi" nell’area.

Francamente non trovo motivi di compiacimento nel maggior coinvolgimento in una guerra coloniale dell’Europa e del nostro paese, con l’ingigantimento della spesa militare, e ancor più dal punto di vista etico e politico. Questo ‘decentramento democratico ’ dello stragismo, chiamiamolo così, pare viceversa decisamente ripugnante.

Pensieri e sentimenti analoghi suscita il trattamento dei prigionieri politici, per i quali si è deciso piuttosto in sordina, a fronte dei tanto sbandierati cambiamenti, che tutto resterà come prima. Confermata l’impunità per i torturatori della Cia, quasi immutati i tribunali speciali militari, ribadita l’utilità delle famigerate ‘rendition’, l’estabilishment statunitense si limita a discettare sull’opportunità o meno di chiudere Guantanamo: non tanto perché si tratta forse del lager più schifoso sia mai esistito, quanto perché "è diventato una bandiera per i nostri nemici", secondo l’attuale presidente che preferirebbe perciò tornare al metodo clintoniano di affidare i malcapitati ai servizi dei ‘paesi amici ’ onde torturarli senza dare troppo nell’occhio. Decentramento democratico pure delle torture e dei lager, Bagram in testa.

Nello scenario israelo- palestinese- iraniano, il gioco è appena più sottile, senza portare novità neppure in questo caso. Il recente colloquio fra Obama e Netanyahu, dove il primo ha ribadito l’idea di uno stato palestinese, con distinguo che ne fanno evaporare quasi tutto il contenuto, ed il secondo la rifiuta tout court, ricorda, per fare un solo esempio nel recente passato, la dichiarazione di George Bush a favore dello stato palestinese del 2 ottobre 2001, appena prima di una cruenta offensiva israeliana contro i Territori ed il quartier generale dell’Anp, condivisa - dapprima per fatti concludenti e poi apertamente - dall’allora presidente americano, con un discorso pronunciato il 3 dicembre (vedi note relative nel dossier Palestina) con la consueta motivazione del "diritto alla difesa" dello stato sionista.

Un gioco delle parti, dove il ruolo del duro è interpretato dallo stato ebraico, mentre l’americano continua a fingersi mediatore e ricalca a parole le risoluzioni dell’Onu in materia, adoperandosi nella pratica per disapplicarle. Vuoi perché non si comprende neanche più di che "stato palestinese" si parli, non potendo dirsi tale un’entità disarmata, alla mercè dell’aggressivo vicino, per di più con confini assurdi, somigliante piuttosto ad una serie di riserve circondate da chek point, muri e filo spinato; vuoi perché, nel mentre si chiacchiera, i furti di terre e risorse palestinesi rimpiccioliscono, ogni mese che passa, la ipotetica entità palestinese, senza che gli Usa muovano un dito per impedirlo; vuoi infine perché i rifornimenti di armi americane, impiegate da Israele per sterminare i vicini, continuano ininterrotti ed anzi si incrementano. Ed è fin troppo chiaro che il gioco delle parti serve a riaffermare la legittimità dello stato sionista, mentre quest’ultimo viola tutte le risoluzioni internazionali, a cominciare da quella originaria, che subordinava tale legittimità alla costituzione in tempi brevi di uno stato palestinese sovrano sulla restante metà della regione storica. Senza la predetta finzione, senza il gioco delle parti fra Washington e Tel Aviv, il nodo della illegittimità dello stato sionista, che invece della metà si è preso con la forza l’intera Palestina, si sarebbe imposto al mondo da molto tempo.

Analogamente, verso l’Iran, il "cattivo" Israele fa trapelare sulla stampa, un mese sì e l’altro pure, micidiali piani di attacco, ripete, una settimana sì e l’altra pure, la propria volontà delegittimante e le proprie minacce; mentre il "buono", Obama, ancora una volta interpreta la parte del mediatore (vedi ancora il discorso della mano tesa e del pugno aperto) ma condivide con l’alleato il fine di impedire alla repubblica islamica sia la protezione di Hamas, legittimo governante di Gaza che gli Usa, al pari di Israele, desiderano rimpiazzare con un fantoccio, sia lo sviluppo del piano nucleare, che romperebbe il monopolio illegalmente assicurato nella regione allo stato sionista. Oltre a tendere la mano, l’America continua a tendere trappole micidiali allo stato islamico, dal finanziamento di terroristi vari (oh, buoni democratici, s’intende), alle ritorsioni economiche. Ma, grazie al formale gioco delle parti, si augura di sottrarre le proprie basi militari all’inevitabile ritorsione dell’Iran, quando Israele deciderà (o meglio, insieme decideranno, in incontri riservati) di attaccarlo.

L’attuale presidente americano ha dichiarato più volte di ispirarsi, fra i suoi predecessori, a John F. Kennedy. Effettivamente lo stile è somigliante, chiamiamolo della mano tesa. Si può ricordare, per esempio, come Kennedy porse le condoglianze al Congo e si disse "profondamente colpito" dalla uccisione di Patrice Lumumba. Era l’11 febbraio 1961, poco tempo dopo che i servizi segreti americani avevano impartito l’ordine di assassinarlo.