Restaurazione egiziana (mmc- agosto 2013)


Per una volta non si può rimproverare l’informazione ufficiale di aver minimizzato gli eventi egiziani, che hanno capovolto in tragedia la

più promettente delle primavere arabe; quanto piuttosto di averne mistificato il contesto e le motivazioni, allo scopo di trovare una

qualche giustificazione al colpo di Stato compiuto da impresentabili alleati. Dapprima ha fatto eco alle strampalerie dell’amministrazione americana (dal “non abbiamo il dovere di definire l’azione dell’esercito” di Obama al “ritorno alla democrazia per mano dei militari” del segretario di Stato Kerry) e l’ossimoro del “golpe democratico” ha fatto degna compagnia alle “missioni di pace” delle potenze belliciste come al “terrorismo” di chi cerca di difendere il proprio paese. Del resto neppure il “golpe democratico” è una novità, trovando un fulgido precedente nel putsch algerino dei primi Novanta grazie al quale un esercito democratico al pari di quello egiziano e le potenze occidentali hanno impedito di governare e messo fuorilegge un grande movimento islamico come il Fis, colpevole di avere vinto le elezioni, e di più hanno commesso e coperto orrende stragi di civili per attribuirne la responsabilità agli islamisti e scatenare la guerra civile che ne è seguita, devastante. Il golpe algerino è stato messo nel dimenticatoio: sarebbe meglio invece ricordarsene per avere una chiave di lettura in più degli eventi che hanno preceduto, accompagnato e seguito il putsch del Cairo.

Se il bagno di sangue (4000 o più le vittime), lo scioglimento della Fratellanza, migliaia di arresti e la chiusura delle testate ed emittenti non sottomesse al regime militare hanno provveduto a chiarire il “ritorno alla democrazia”, ecco l’informazione ufficiale sfornare altre dotte varianti. In effetti non si è trattato di un golpe democratico – hanno scritto, fra gli altri, il professor Parsi sul “Sole 24 Ore” e Roberto Toscano su “La Stampa” - quanto piuttosto “rivoluzionario”, additando come precedenti storici il 18 Brumaio di Napoleone Bonaparte e le vicende dello stesso Egitto, da Neguib a Nasser a Sadat e suggerendo, l’ultimo dei due, la “necessità di abbandonare i moralismi e rassegnarci al fatto che in una prospettiva storica la rivoluzione ha spesso bisogno di essere promossa con la violenza armata. La ‘levatrice della Storia’, come dicevano i leninisti”. Addirittura. Al Sisi come nuovo Lenin finora non ha trovato imitatori, come nuovo Nasser invece sbanca. Del resto egli stesso si proclama nasserista.

Per altro, cos’hanno in comune con Nasser il generale al Sisi ed il suo entourage? la repressione della Fratellanza mussulmana e l’interventismo militare esauriscono il parallelo, la direzione di marcia essendo assai diversa. I Giovani Ufficiali avevano una formazione progressista, tanto da essere accusati di tendenze socialcomuniste, un programma sociale e non liberista, la loro cultura e la loro azione furono ispirate alle istanze anticolonialiste fino a diventare i paladini della causa palestinese contro Israele. Il “nasserista” al Sisi si è formato nel Us Army war College ed è in costante contatto con il Pentagono, l’intera leadership dell’esercito egiziano è liberista, intimamente intrecciata all’oligarchia economica ed amica delle multinazionali, è sovvenzionata dagli Stati Uniti con una cifra annua di 1 miliardo e mezzo $, principalmente diretta ad aiuti militari, per essere baluardo dello status quo; e difatti si è subito posta come il cane da guardia dell’alleanza con Israele condivisa dai predecessori, Sadat e Mubarak, non rotta ufficialmente ma incrinata dalla presidenza Morsi; e dell’assedio alla Striscia di Gaza. Il paragone col putsch dei Giovani Ufficiali non tiene, però serve per sottacere la restaurazione del vecchio regime, del quale cambiano i volti rappresentativi, non la sostanza, come le responsabilità attribuibili all’asse israelo- americano ed alle petromonarchie ostili alla Fratellanza.

Naturalmente, allo stesso scopo, si invoca il luogo scelto dai fiancheggiatori dell’esercito, la famosa piazza Tahrir della sollevazione contro Mubarak. Oggi gli occupanti della piazza sono per la gran parte diversi, i loro intenti opposti ma il luogo simbolico è utile a confondere le idee in proposito.

Un argomento più sottile, condiviso dal variegato fronte egiziano pro golpe e ripreso dall’informazione di casa nostra consiste nel rimproverare ai Fratelli una serie di errori, che avrebbero reso ineluttabile l’intervento dell’esercito allo scopo di rimediarvi, “a difesa del popolo”.

Un primo rimprovero mosso a Morsi ed alla Fratellanza è di non aver cercato l’alleanza con le altre forze che avevano condiviso la rivolta contro Mubarak, nei primi mesi del 2011, ed aver svolto quindi un’azione di governo “non inclusiva”. Il governo e l’attività politica in effetti non sono stati inclusivi ma questo rimprovero confonde l’effetto con la causa. Chi ha seguito i fatti di piazza Tahrir dovrebbe ricordare che i Fratelli, primo protagonista per numeri ed organizzazione della rivolta, hanno rinunciato dapprima a vedersi riconoscere tale ruolo e si sono invece confusi nella folla che rivendicava le dimissioni del Rais. Poi hanno cercato per mesi questa alleanza, avendo chiaro più di altri che l’obiettivo non poteva essere solo l’estromissione di Mubarak ma occorreva un cambiamento più profondo, che cercasse gradualmente di limitare il ruolo dell’esercito. Quest’ultimo, autoproclamatosi da subito protagonista della “transizione”, ha rinviato a lungo le elezioni, temendo il risultato favorevole ai Fratelli che difatti ne è scaturito, e, nell’autunno 2011, ha rivendicato la scrittura di norme costituzionali che attribuivano al Consiglio supremo delle forze armate un potere straordinario di controllo e veto sulle leggi; affermava inoltre l’incompetenza delle assemblee elettive circa una serie importante di attività dell’esercito e relativo budget. Di fronte all’imposizione dei militari i Fratelli si sono trovati soli e le manifestazioni, la rivendicazione del cambiamento politico sono continuate solo grazie a loro, mentre altri sceglievano la via della sottomissione o del mugugno inconcludente. Non sono stati i Fratelli a rifiutare l’apporto delle forze laiche alla scrittura della nuova Costituzione, ma queste ultime a negarlo, preferendo per la gran parte infittire i contatti con la leadership militare, che li blandiva e li incoraggiava all’unità politica ed elettorale tra le forze non islamiche, in contrapposizione alla Fratellanza. Se tale unità non si è realizzata compiutamente, se il fronte laico è rimasto frantumato e litigioso è però in questi contatti che va ricercata la spaccatura del vecchio fronte anti- Mubarak e l’origine della rete Tamarrod, ribelle di nome e sottomessa di fatto. La frustrazione per l’esito elettorale, disastroso per i gruppi laici alle elezioni parlamentari ed in quelle presidenziali, ha fatto il resto.

Il secondo rimprovero rivolto alla Fratellanza è di “aver tradito la laicità”, inserendo nelle norme costituzionali un richiamo alla legge islamica ed alleandosi con i gruppi salafiti. Si dimentica tuttavia che fu il rifiuto delle forze laiche a spingere Morsi a tale alleanza, peraltro non troppo desiderata e conflittuale; tanto che il maggior gruppo salafita, El Nour, ha appoggiato il putsch dell’esercito, abbandonando alla repressione i Fratelli. Come spiegano questa diserzione i “laici”, come spiegano di aver accolto i salafiti a braccia aperte? Come spiegano di essersi alleati con i sostenitori del vecchio regime, confondendosi con essi, coi poliziotti e gli agenti dei servizi che pullulano nella “nuova” piazza Tahrir? Semplicemente non lo spiegano. Né spiegano la “dimenticanza” dei crimini perpetrati dai militari anche contro la prima rivolta, come le decine di vittime dell’attacco alla televisione di Stato, nell’ottobre 2011, la repressione degli scioperi al Cairo, Suez ed altre città, gli abusi contro le donne e la imposizione, e successiva difesa dei “test di verginità” da parte del generale al Sisi.

Fra le accuse rivolte al presidente deposto c’è l’accentramento del potere e, in particolare, la contrapposizione agli organismi rappresentativi e più alti della magistratura. Una corporazione strettamente legata al vecchio regime, che ha lavorato fin dall’inizio per la restaurazione ostacolando in ogni modo la transizione democratica a partire dalla Corte costituzionale, l’organismo responsabile dello scioglimento dell’assemblea parlamentare eletta e del successivo disconoscimento della nuova Costituzione, legittimamente scritta ed approvata da un referendum popolare nel dicembre 2012. Un’attività premiata poi dai militari con la nomina alla presidenza della Repubblica del presidente della stessa Corte e confermata dall’ondata di mandati di cattura contro i Fratelli, con almeno 1800 arresti ufficialmente ammessi. Il conflitto fra Morsi e la Corte costituzionale era perciò comprensibile, o inevitabile, come la politica di nuove nomine nell’amministrazione dello Stato, che aveva lo scopo di guadagnare la lealtà dei funzionari al nuovo ordine, decisamente improbabile mantenendone i vecchi dirigenti: il putsch è intervenuto in tempo utile ad evitare che questo tentativo andasse a buon segno, com’è accaduto in Turchia a partire dal 2002. Se sono stati commessi errori, e quali, in questo percorso è difficile sapere. Certamente non è stata una buona scelta la nomina del generale al Sisi a ministro della Difesa…

In genere, anche in politica economica, è il modello turco ad aver ispirato la Fratellanza, come più volte hanno dichiarato i suoi dirigenti. Una politica di piccoli passi, diretta ad un cambiamento graduale nel sistema di potere, una politica anche di compromessi con poteri troppo forti – secondo il pensiero di Morsi e del suo entourage- per consentirsi strappi e cambiamenti radicali. Diversamente da una Turchia in forte crescita nell’ultimo decennio, però, l’Egitto è un paese disastrato da un’oligarchia accentratrice e rapace, che ha affamato grandi masse, da un debito pubblico di 35 miliardi $, i cui interessi divorano i bilanci, da una disoccupazione vertiginosa: prima, anche se non unica, molla della rivolta del 2011. E l’esercito nell’economia ha un ruolo forse unico al mondo controllandone, a detta di tutti gli analisti, un bel 50%, tramite partecipazioni dirette e l’intreccio con l’élite economica: dall’industria alimentare alle costruzioni, dal turismo all’editoria oltre all’industria di guerra. Così come controlla gli stanziamenti provenienti dall’estero, in primis il miliardo e mezzo annuo elargito dagli Usa ed impiegato prevalentemente a fini militari oltre che per consolidare il proprio potere economico. Un potere enorme dunque, che la Fratellanza non ha potuto, o non ha voluto, affrontare in modo rivoluzionario, procedendo a nazionalizzare imprese in chiusura, contrastando in modo radicale l’élite militare ed economica, denunciando il debito o parte di esso per redistribuire le risorse e creare lavoro, chiamando il popolo a continuare la rivolta del 2011. Poteva farlo, poteva portare l’Egitto su una strada radicalmente diversa ed accrescere in tal modo il proprio consenso popolare, come sostengono alcuni critici di sinistra? Forse. Probabilmente avrebbe affrettato il golpe, o non avrebbe nemmeno potuto incominciare.

Fra i passi compiuti, almeno quelli che si conoscono, vi è stato il conflitto con l’esercito sul controllo del budget e degli aiuti internazionali, che però non è stato risolutivo; il tentativo di incidere sui processi di ristrutturazione e privatizzazione mediante le ‘obbligazioni islamiche’, che hanno creato reazioni in tradizionali poteri forti e al tempo stesso sono valse ai Fratelli l’accusa di non valorizzare o svendere le proprietà pubbliche (paradossale quando avanzata dai restauratori che, sulla spinta del Fmi, sono stati gli iniziatori della politica di privatizzazione a vantaggio delle multinazionali), provvedimenti sociali quali il progressivo abbattimento del debito dei contadini e maggiori stanziamenti per l’assistenza, tradizionale punto di forza della Fratellanza. Conoscendo il radicamento di quest’ultima nelle campagne, il governo insediato dal golpe si è affrettato a confermare il primo progetto, almeno a parole.

Fatto sta che la politica del cambiamento graduale ha scontentato sia i potentati economici sia parte del popolo che si aspettava di più e di meglio. Non si aspettava di certo la delega alla polizia per reprimere scioperi, com’è accaduto ad Alessandria. Pressato dal Fmi che esigeva il rallentamento di ogni progetto sociale, Morsi non ha saputo accontentare la popolazione, soprattutto urbana, mentre la élite militare ed economica è stata molto abile nell’indirizzare ed utilizzare una capillare propaganda dei Tamarrod (formalmente indipendente dai militari) diretta a soffiare sul malcontento e additare i Fratelli come incompetenti ed artefici di un disastro, da essa stessa provocato. Così come si deve ritenere provocata anche la sparizione di diesel ed elettricità, famosa goccia che fa traboccare il vaso, entrambi ricomparsi a poche ore dal putsch.

In politica estera il cambiamento è stato più percepibile, almeno ad occhi non egiziani. Sono riprese le relazioni con l’Iran - benché non particolarmente calorose, per la antica divisione fra sciiti e sunniti e la diversità d’intenti circa la Siria. E questo è un fatto storico: in caso di attacco israelo-occidentale contro l’Iran, l’Egitto dei Fratelli sarebbe rimasto quanto meno estraneo al conflitto, mentre l’Egitto dei putschisti sarà al fianco degli aggressori. Sono cambiate le relazioni con la Turchia di Erdogan, da conflittuali sono diventate un’alleanza su tutti i fronti. L’Egitto dei Fratelli non ha denunciato la pace separata con Israele ma le relazioni sono radicalmente cambiate, dall’assedio di Gaza e dal fiancheggiamento alle politiche omicidiarie di Israele, assicurati dal vecchio regime, è passato all’appoggio del governo di Hamas – storica filiazione della Fratellanza- cui ha aperto la strada delle relazioni diplomatiche e di notevolissimi apporti finanziari ; mentre dal valico di Rafah, ufficialmente aperto solo al passaggio di persone e non di merci , è passato di tutto: le attività, da quelle economiche a quelle culturali, sono riprese nella Striscia e con esse la vita e la speranza. Ed è stata l’attività di Morsi, l’anno scorso, ad evitare una sanguinosa tappa della Catastrofe palestinese fermando i raid stragisti di Israele. In pochi giorni dal putsch è cambiato tutto ed è ripreso l’inumano assedio israeliano ai gazawi. Anche per questi aspetti, militari e Tamarrod sono stati abili nello sfruttare la xenofobia e la diffidenza della parte più retriva del popolo verso i palestinesi accusando la Fratellanza di aver dirottato fondi egiziani per sostenere i gazawi e di aver messo a rischio la pace nella regione e la vita degli agenti di frontiera, permettendo il passaggio dei gruppi armati salafiti nel Sinai, per aver chiuso entrambi gli occhi sui passaggi da Rafah.

Chi si è allarmato di più per i cambiamenti in politica estera è stato naturalmente l’asse imperialista israelo-statunitense, che non ha ritenuto di tollerarli più a lungo ed ha certamente acceso la luce verde ai militari per il putsch. L’unica eccezione su questi aspetti , che può spiegare in parte qualche esitazione iniziale nell’amministrazione Usa, è l’ostilità dei Fratelli egiziani verso il regime di Assad, assai condivisa dall’America tentata dall’attacco armato contro Damasco, visto che una guerra cosiddetta interna in due anni non è riuscita nell’intento di abbatterlo; mentre i militari egiziani pendono dalla parte del governo siriano. Fra questa propensione non condivisa e l’allineamento totale ad Israele, gli Usa non potevano esitare a lungo.

Detto questo, non voglio sostenere che i militari egiziani, perché sovvenzionati dagli Usa, siano meri fantocci manovrati da questi ultimi. L’aver esplicitato simpatia verso Assad, come la replica sprezzante del generale al Sisi agli inviti di Barack Obama ad evitare bagni di sangue, sono segni evidenti che non si tratta di fantocci, e che essi agiscono prevalentemente nel proprio interesse. Nulla è più fuorviante, in questa e tante altre vicende, che contrapporre una ‘pista interna’ ad una ‘pista estera’. Chi lo fa, anche in questo caso, compie un anacronismo poiché le piccole patrie sono superate da tempo, le relazioni troppo interconnesse perché si possano dividere quelle interne dalle esterne. Le decisioni maturano in summit politici, militari, di servizi segreti, in sedicenti convegni di studio promossi da soggetti orbitanti attorno a questi ultimi, in viaggi ufficiali ed ufficiosi dove gli ‘sponsor’, chiamiamoli così, sono quasi sempre presenti.

Le lamentazioni di Obama e del suo entourage, gli inviti alla moderazione sono dettati dalla preoccupazione di non vedere compromessa la stabilità del colosso egiziano, oltre che dalla consueta ipocrisia democratica, non devono invece trarre in inganno circa le loro responsabilità nel putsch. Avrebbero potuto compierlo senza luce verde, i militari egiziani, compromettendo gli ingenti finanziamenti ricevuti e la loro rete relazionale? Ma via. Al contrario essi possono permettersi di respingere le raccomandazioni perché conoscono bene la complicità americana e sono in grado di portarne le prove. Così come l’amministrazione Obama, se non avesse condiviso fino in fondo il putsch, avrebbe potuto fermarlo boccando i finanziamenti. Se non l’ha fatto, se non lo fa è semplicemente perché condivide il golpe, il “ritorno alla democrazia”, secondo l’espressione usata dal segretario di Stato John Kerry in un momento di sincerità sulla natura ed i valori dello stesso regime statunitense.