Tre papi in Terrasanta (maggio 2009- m.m.c.)

Nessuno, credo, nutriva grandi aspettative sul viaggio, più volte annunciato, di Benedetto XVI in Medio Oriente, né ci si poteva attendere una vera correzione di rotta dopo un quarto di secolo segnato dal filo- sionismo del suo predecessore. In proposito ricordiamo (digita Giovanni Paolo II ne "Storia d’Italia" a fianco) come questo atteggiamento fu chiaro fin dalla elezione di quest’ultimo, festeggiata dalle comunità ebraiche europee, in specie a Roma e Madrid. Seguirono le pressioni per allontanare le suore del Carmelo da Auschwitz, per accontentare gli ebrei polacchi; l’accordo che instaurò regolari rapporti diplomatici con Israele del dicembre 1993; la visita, nella primavera successiva, di Yitzchaq Rabin, primo premier israeliano ad essere ricevuto in Vaticano a perorare garanzie per Israele ed il contestuale abbandono della causa palestinese. Rabin fu imitato da Benjamin Netanyahu che espose al Papa, trovandone la comprensione, le ragioni del rifiuto a ritirarsi dal Libano (tanto che la stessa fazione cristiana sconsigliò a quest’ultimo di visitare il paese occupato); mentre il leader palestinese Yasser Arafat dovette attendere il 2001 per ricevere un’accoglienza più fredda, oltre che scambi diplomatici meno ufficiali, di serie B per così dire. Va rammentata ancora, di quel pontificato, l’intesa con la massoneria, trapelata dalla vicenda dei comuni finanziamenti a Solidarnosc, a completare quella con l’asse israelo- americano in funzione anticomunista, tesa al rovesciamento dei regimi dell’est, a cominciare dalla Polonia. Ancora, la visita di Ariel Sharon in Vaticano e le appassionate invettive di Giovanni Paolo II, dopo l’11 settembre dello stesso anno, contro i "terroristi che devono rispondere davanti a Dio"; mentre le stragi dei palestinesi, intensificate dagli occupanti dopo quella data, non ne meritarono alcuna. Risultato ne fu la sparatoria contro la Basilica della Natività, a caccia di ‘terroristi ’ ivi rifugiati.

Sarebbe stato immaginabile un attacco del genere, un simile affronto al luogo simbolo della cristianità, sotto il pontificato di Paolo VI? Certamente no perché quel papa fu più attento all’autorità della Chiesa e più freddo verso i ‘fratelli maggiori ’, in grado quindi di ottenerne un rispetto maggiore. Più freddo, senza per questo contraddire la vocazione conciliare, intesa come dialogo con le altre religioni monoteiste, l’ebraismo come l’islamismo: e difatti egli rettificò in questo senso paritario lo "Schema sugli ebrei" predisposto da Giovanni XXIII, ritenendolo troppo sbilanciato verso il primo interlocutore (vedi, nella citata Storia d’Italia, la nota del 25 settembre 1964). Fu tutto sommato, nonostante il filo- atlantismo della Chiesa post conflitto, e relativi affari finanziari, più un rivale della massoneria che un suo alleato. Si ricordi soprattutto il Paolo VI scortato dal Sifar in Palestina (con maggiore attenzione a rischi israeliani che palestinesi) nel gennaio 1964, portato quasi in trionfo sulla via Crucis del Gesù e di quella del popolo palestinese.

Tornando ai giorni nostri, nulla di simile poteva accadere nella visita di Benedetto XVI il quale, oltre ad evitare con cura di estenderla alla martoriata Gaza, pregando allo Yad Vashem di Gerusalemme, ha pronunciato le frasi che il mondo ebraico si attendeva da lui – condanna dell’antisemitismo, dell’olocausto ebraico ecc. – senza far parola di quello palestinese, appena incrementato di una sanguinosa tappa. Tuttavia egli ha ascoltato le parole del Gran Muftì di Gerusalemme, Mohammad Hussein, e del presidente dei Tribunali islamici, Tayssir al Tamini, che hanno sopperito ai suoi silenzi esponendogli il calvario dei palestinesi: tanto che i rabbini, offesi, hanno abbandonato l’incontro interreligioso. Benedetto XVI si è poi commosso davanti al Muro, ha pronunciato un discorso, un po’ fumoso, contro "gli spargimenti di sangue" e la "spirale della violenza", infine ha perorato una "patria palestinese". L’effetto principale della visita è stato, secondo diversi commentatori, scontentare entrambi i contendenti: le vittime palestinesi, parificate agli aggressori, ed anche gli insaziabili israeliani, che chiedevano un allineamento totale alle proprie posizioni (la stampa israeliana ha definito l’atteggiamento del Papa "tiepido", "deludente", una "occasione perduta" e così via). Forse, più che un ritorno al neutralismo pacifista, abbiamo visto in questa occasione una prova, papale papale, di cerchiobottismo. Segnale comunque dell’intento di aggiustare in qualche modo il tracciato del suo predecessore, senza abbandonarlo, di mostrare una maggiore autonomia della Chiesa.

Altre prove attendono Benedetto XVI, nelle quali si potranno verificare ulteriormente le sue intenzioni e le sue possibilità. Con la recente, inusuale lettera ai vescovi egli ha forse disorientato, ma non domato, la sollevazione della parte più filo- sionista del clero, seguita alla revoca delle scomuniche inflitte dal suo predecessore ai componenti la Confraternita san Pio X, ribelli alle interpretazioni del Concilio di Giovanni Paolo II. Molti occhi sono puntati sui colloqui che ne seguiranno, sotto la supervisione della Confraternita per la dottrina della fede (ex Sant’Uffizio), diretti alla riammissione a pieno titolo dei vescovi dissenzienti: ed è ovvio che il problema non sono le messe in latino. Gli stessi occhi sorvegliano da tempo il percorso della causa di santificazione di Pio XII, inviso al mondo ebraico che fa del suo fallimento un punto d’onore. La sollevazione che si diceva si può considerare quindi una vera prova di forza dei ‘fratelli maggiori’ e dei loro più stretti alleati nella Chiesa verso il Papa ed il suo entourage. E si possono naturalmente ipotizzare altri fili meno visibili, tessuti dai primi, per indurlo a seguire la strada maestra (per loro) di papa Wojtyla. Che anche queste vicende si ripercuoteranno su quelle mediorientali, benché più indirettamente della visita (insieme pastorale e politica) sopra commentata, è fuori dubbio.

Motivo, per chi ha a cuore la causa palestinese, per non cadere nella trita contrapposizione fra progressisti e reazionari, conciliari e preconciliari, tesa a screditare gli avversari del sionismo nella Chiesa. Non sono un’esperta di questioni dottrinali e teologiche, mi limito a fare una domanda: come mai dovremmo progressisti coloro che invocano repressione e scomuniche, e reazionari coloro che vogliono superare questi metodi? conciliari i difensori della supremazia ebraica, conservatori coloro che si richiamano alla fratellanza e ai diritti dei popoli?