Una guerra tira l’altra (mmc – autunno 2011)

Con il cruento omicidio di Muammar Gheddafi e dei suoi figli (l’ultimo sarà quello di Saif, al termine dell’annunciato processo- farsa), gli eccidi di massa perpetrati nelle roccaforti lealiste dai golpisti libici e dai propri cacciabombardieri, la Nato ha potuto cantare vittoria. E decretare la fine di "Protettore unificato", la missione diretta non certo a proteggere i cittadini, assassinati a decine di migliaia, ma a sostituire la Jamahiriya con un regime più docile, sottomesso all’Occidente ed ai regimi arabi alleati, dall’Arabia al Qatar fino alla Turchia (benché quest’ultima abbia tentato il negoziato e contrastato l’intervento militare).

Si tratta di una vittoria tutto sommato fragile, come prevedevo in un’analisi precedente al sanguinoso epilogo (vedi Esplosiva Libia, settembre 2011), conseguita mediante bombardamenti devastanti ed un golpe che, pur camuffato da rivoluzione, non è riuscito a conquistare altri fuori di chi c’era già: i nemici interni della Jamahiriya, provvisoriamente alleati per sconfiggerla, stanziati soprattutto in Cirenaica. Tant’è che la celebrazione della vittoria si è dovuta fare a Bengasi, non a Tripoli. Le poche voci indipendenti che hanno descritto l’attuale situazione con cognizione di causa (vedine alcune nell’analisi precedente) confermano che la popolazione in larga maggioranza è ostile al nuovo regime, che poggia sul Cnt e le milizie armate e che ha tutte le caratteristiche di una dittatura militare, ancorché (dichiaratamente) provvisoria. La Jamahiriya era invece un sistema rappresentativo della società, composta da decine di tribù che sceglievano i propri delegati all’interno dei Consigli - cittadini, provinciali e nazionale- e, per quanto burocratizzato e degenerato (anche i nostri lo sono), dalla società tribale riceveva consenso e legittimità. La leadership di Gheddafi, come leader della rivoluzione anticolonialista del 1969 e figura carismatica, un primus inter pares benché privo di cariche formali, garantiva l’equilibrio di questo sistema, afferma Paolo Sensini, autore del volume Libia 2011 (ed. Jaca Book), in un’intervista al sito "Peacereporter" (21 novembre 2011): "un equilibrio differente da quella che secondo i nostri parametri chiamiamo dittatura" . E che adesso è completamente saltato. Per avere un quadro dello sfascio provocato dall’intervento Nato, e della conseguente ostilità del popolo libico, si deve anche tener presente che la prosperità goduta dalla Libia prima del golpe è finita, che le città che hanno resistito sono cumuli di macerie, la ricostruzione sarà selettiva e pagata col denaro rubato ai fondi statali libici, che le milizie scorrazzano per le città compiendo ogni sorta di sopraffazione, si ammazzano fra loro per ottenere l’egemonia sul territorio e all’interno del Cnt, infine che la resistenza lealista, pur avendo subito colpi gravissimi, non è domata. Sensini, che ha constatato la situazione di persona, afferma che a metà di novembre si è avuta notizia di "un forte contingente (circa 33mila uomini) che si è ricompattato e ha dato battaglia a Zawiah e in altre zone".

Questa importante variabile – la resistenza nazionale che ha condotto una guerra di posizione, fronteggiando la coalizione più potente del mondo per ben 8 mesi, e che continua in altri modi – non era prevista né forse prevedibile dalla Nato nelle sue dimensioni. Ma tutto il resto sì. Si può concordare con l’autore citato: "Gli analisti, tutto questo, lo sapevano benissimo. Dal mio punto di vista l’obiettivo, fin dall’inizio, era questo caos…Quando si è deciso di appoggiare questa cosiddetta rivolta, il piano più che evidente era quello di destabilizzare un Paese". Dopo l’assassinio di Gheddafi, consegnato dai cacciabombardieri Nato ai golpisti perché ne facessero scempio, il segretario dell’Alleanza Anders Fogh Rasmussen ha dichiarato che la missione si è conclusa con "un successo" . E Joe Biden, vice presidente Usa: "La guerra è costata agli Stati uniti 2 miliardi $ e zero vite. Così devono andare le cose". Tanto da progettare il bis.

Il prossimo obiettivo dovrebbe essere la Siria, nel mirino da anni (vedi Assalto alla Siria, in questa Rubrica, ottobre 2005). Qui la situazione si presenta anche più facile per la Nato, dal punto di vista interno, perché il regime di Bashar el Assad conta sì anch’esso un notevole consenso (degli alawiti- sciiti, di laici e cristiani) ma non della maggioranza (sunnita), e quel consenso è andato certamente eroso dalla repressione. Anche in questo caso naturalmente è stata spesa la storiella del tiranno violento che reprime la rivolta pacifica del suo popolo – non è mai stata pacifica- ma è vero che lo scontro, inizialmente, è stato impari e che la maggior parte delle vittime si sono contate tra le file degli insorti. Da tempo però la situazione sul terreno si è riequilibrata per l’ingente afflusso di armi, addestratori ed unità speciali francesi, inglesi, statunitensi, qatariane ed arabe, fino al recente ingresso di milizie qaediste libiche per centinaia di unità; e la formazione del cosiddetto Esercito libero, rinforzato da disertori, che ha condotto omicidi più o meno mirati ed azioni militari anche vistose, quali l’assalto alla base dei servizi lealisti ed altri attacchi ai palazzi del potere. Guido Olimpio, fra gli altri, ammette che la Siria sta diventando "l’obiettivo di tre azioni concertate. 1) Una guerra segreta condotta da 007 stranieri in appoggio all’Esercito libero composto da disertori. 2) Una guerriglia strisciante portata avanti dagli oppositori. 3) Una pressione diplomatica continua che fa perno sulle sanzioni economiche" ed aggiunge che "la task force segreta avrebbe un centro di comando nella località turca di Iskenderun", la qual cosa conferma il ruolo attivo svolto dalla Turchia, che ha inoltre accolto riunioni politiche degli oppositori e si è attivata sul fronte delle sanzioni. Non la brutale repressione di un tiranno cattivo contro un popolo inerme, dunque, ma una guerra civile con tutti i crismi, con l’aggiunta dell’intervento esterno di più potenze alleate contro il governo siriano a sostegno delle fazioni che lo vogliono rovesciare.

Più che riequilibrarsi, la situazione si è rovesciata, il rapporto di forza ribaltato. La debolezza di Damasco è risultata evidente dalla risoluzione della Lega araba che, con soli 2 voti contrari, ha decretato la sospensione della Siria – un fatto senza precedenti- finché essa non ottempererà al "piano per la cessazione delle violenze" mediante il ritiro dei mezzi militari dalle città, il rilascio di tutti i prigionieri politici, l’accoglienza di "osservatori" (agenti dei servizi in realtà) incaricati di verificare sul terreno il "rispetto dei diritti umani" . Par di capire che le violenze devono cessare da una parte sola, quella governativa. Diversamente, alla sospensione si aggiungeranno le sanzioni già varate, quali la sospensione dei voli commerciali. Composte in qualche modo le notevoli divergenze fra gli oppositori, s’è formato poi il Cns, Consiglio nazionale siriano che, pur non comprendendo tutte le fazioni, è stato già riconosciuto il 23 novembre come "interlocutore legittimo" dal governo di Parigi, per voce del ministro Juppé, secondo il copione sperimentato con il Cnt libico. Così accreditato, come l’omologo libico, il Cns ha alzato la posta chiedendo all’Onu l’adozione della "no fly zone", premessa per l’intervento militare. "Umanitario" come quello contro la Libia, s’immagina. Alcuni giorni fa Le Canard Enchainé, sulla base di fonti anonime del ministero della Difesa francese - che evidentemente ha deciso di divulgarlo- ha rivelato un piano militare della Nato, che sarà realizzato in una prima fase da forze francesi e britanniche, a partire da postazioni turche.

L’ostacolo principale all’intervento militare contro la Siria, finora, è l’ostilità delle potenze asiatiche. Vero che tale ostilità era stata dichiarata anche verso l’intervento contro Tripoli: la cui difesa per altro interessava assai meno alle potenze del patto di Shangai rispetto a quella di Damasco. Probabilmente la politica gheddafiana di unità africana infastidiva anche loro, urtandone l’espansionismo nel continente nero: su questo punto cito ancora Sensini, secondo il quale sono stati prevalentemente i progetti di moneta unica africana e fondo monetario africano a scatenare contro Gheddafi le potenze colonialiste, principalmente Usa e Francia. E’ probabile che stavolta, invece, Russia e Cina metterebbero davvero il veto all’intervento contro la Siria, costringendo gli interventisti a rinunciare alla "foglia di fico" dell’Onu. Non penso invece che le velleità interventiste siano raffreddate più di tanto dall’assenza di petrolio od altre ingenti ricchezze da rubare, come ha suggerito qualcuno. L’obiettivo altrettanto ghiotto, realizzabile col rovesciamento di Assad, è quello di scardinare l’alleanza Damasco- Teheran- Hezbollah, freno ai piani dell’asse Washington- Tel Aviv- Bruxelles e dei regimi arabi sunniti al carro.

Il nodo centrale resta Teheran, la più forte ed antica ossessione dell’asse predetto, ben deciso a mantenere il monopolio del nucleare nelle mani di Tel Aviv ed a rovesciare la Repubblica islamica, il principale ostacolo al suo dominio nella regione. I timori, più che fondati, delle conseguenze militari, politiche ed economiche di una guerra convenzionale hanno indotto gli alleati di ferro, finora, ad optare per una "guerra a bassa intensità". Una guerra fatta di tentativi di delegittimazione, assassinii di scienziati nucleari iraniani, attacchi informatici (come il virus Stuxnet, che ha mandato in tilt per mesi le centrali iraniane), appoggio a gruppi terroristici quali i Mujaheddin del popolo e gli Jundullah del Belucistan, specializzati in stragi nelle moschee sciite. E ancora sanzioni economiche, proclami bellicosi, continue "rivelazioni" di piani d’attacco militare, divulgati scientemente (vedi in questa Rubrica Ingerenze democratiche (per ora fallite) in Iran; Un mondo senza nucleare (iraniano); Monopolio nucleare e venti di guerra, rispettivam. luglio 2009, ottobre 2009, giugno 2010). Veniamo alle ultime attività, per così chiamarle, dell’asse guerrafondaio. Le esercitazioni militari appena tenute a Tel Aviv e, grazie al servilismo italiano, nella base sarda di Decimomannu (Vega 2011) sono state svolte in preparazione dell’attacco, la seconda più propriamente è stata una simulazione dell’attacco a distanza condotto con 6 squadroni israeliani, Eurofighters italiani e Tornado tedeschi (v. La Stampa 2 novembre; Manlio Dinucci sul Manifesto 4 novembre 2011). Intanto Ehud Barak, Shimon Peres e Benjamin Netanyahu annunciavano (5 novembre) che tale attacco "si fa sempre più vicino, giorno dopo giorno" ed il Guardian informava (2 novembre) che la Gran Bretagna si sta preparando a sua volta ad appoggiare "un’azione militare mirata" contro l’Iran. L’8 novembre le pressioni di Us-Israele sull’Aiea, attualmente a direzione giapponese, hanno partorito un rapporto di sostanziale accusa verso Teheran circa il programma nucleare, benché ambiguo e privo di riscontri concreti, comunque pretesto per legittimare in qualche modo l’aggressione. A fine ottobre la Radio iraniana (v. http//italian.irib.ir, 27 ottobre) denunciava: "Scandaloso ma assolutamente ufficiale: gli esperti militari Usa, convocati dal Congresso, hanno annunciato che ‘l’eliminazione selettiva delle autorità iraniane ’ è la strategia da seguire per contrastare l’Iran", e proposto in particolare di "prendere di mira tramite attacchi terroristici soprattutto i comandanti dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione islamica".

Detto fatto, si direbbe. Il 12 novembre, l’esplosione a Malard di una base dei Pasdaran ha ucciso 17 Guardiani della Rivoluzione e fra essi il responsabile dell’unità di sperimentazione Moqaddam, al quale andrebbero riferiti i perfezionamenti del missile Shahab, capace, secondo gli esperti, di raggiungere Israele e le coste meridionali dell’Italia. Il 28 novembre, una seconda esplosione ha colpito Isfahan, sede di impianti nucleari e militari. Il "Time", seguito da altre fonti occidentali, ha attribuito l’attacco di Malard al Mossad, citando le solite fonti anonime dei servizi. "Più esplosioni ci sono di questo genere, meglio è", ha provocato il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak. "Ci sono diverse coincidenze in queste esplosioni – ha rincarato il vice ministro Dan Meridor- Le guida una specie di mano, forse la mano di Dio". Tipico dei sionisti e del Mossad far capire, senza confermare né smentire, le azioni attribuitegli lasciando "un’ombra di mistero" attorno ad esse (v. Eric Salerno, Mossad base Italia, Il Saggiatore 2010). Per contro, nonostante la denuncia di poche settimane prima, Teheran ha optato per la versione degli incidenti non raccogliendo la provocazione. S’immagina perché, se lo facesse, dovrebbe reagire militarmente ed apparire così il primo attaccante, posto che una rivendicazione vera e propria degli attentati non c’è. La reazione iraniana è stata politica, con l’assedio di migliaia di giovani all’ambasciata britannica e la devastazione dei locali (alla condanna dell’azione da parte del governo iraniano non crede quasi nessuno), cui sono seguite le reciproche espulsioni dei diplomatici tipiche dei conflitti in fase avanzata. L’ultimo - per chi scrive questa nota - atto è del 4 dicembre, con l’abbattimento del drone- spia americano Sentinel RQ170 in missione nei cieli iraniani (smarrito in quelli afgani, secondo la versione di Washington, credibile quanto quella iraniana della precedente parentesi). Dunque la "guerra non convenzionale" o "a bassa intensità" ha imboccato l’escalation e pare senza ritorno. Se riflettiamo sul precedente più notevole, la c.d. Guerra fredda (ed ai suoi 20 milioni di morti) la cosa più misteriosa da sviscerare è l’indifferenza con la quale i popoli europei reagiscono a queste notizie. Segnatamente quello italiano visto che il nostro paese, grazie alla sua disgraziata classe dirigente al completo, è impelagato fino al collo. Tranne gli antimperialisti, che si sono da tempo attivizzati, ed altre poche voci indipendenti dell’informazione, non si muove una foglia. Ignoranza, assuefazione, impotenza, condivisione? Forse il popolo italiano si sveglierà quando gli cascherà qualche Shabab sulla testa.