Afghanistan e Pakistan, una sola frontiera (ottobre 2008 m.m.c.)

Poche settimane fa, il 15 settembre, le agenzie hanno battuto una notizia insolita: militari pakistani avrebbero aperto il fuoco contro elicotteri americani che sorvolavano le zone tribali, presso il confine afghano, costringendoli ad invertire la rotta ed a tornare alla base. Poche ore dopo sono seguite rituali smentite: gli elicotteri non hanno violato le linee di confine, si è detto prima, poi, essendovi testimonianze in proposito, gli spari ci sono stati sì, ma non si sa chi li ha fatti. Appena una settimana prima, l’eccidio causato da forze statunitensi paracadutate nella zona di Angor avevano causato un’aspra querelle nella quale si era inserito il capo dell’esercito, generale Asfaq Kiyani, preannunciando severe risposte alle intrusioni di "forze straniere" in territorio pakistano: ciò che rende più credibile la notizia delle successive smentite.

La schizofrenia che affligge il Pakistan dall’autunno 2001, con lo schieramento del generale Musharraf a fianco degli Usa nella così detta guerra al terrorismo, sembra aver raggiunto la fase più acuta. Per un verso, a fine estate, il governo di Islamabad ha rimesso in discorso il patto raggiunto (o meglio rinnovato, dopo che un precedente patto era saltato) nella scorsa primavera con i così detti Talebani pakistani stanziati nello Swat ed ha congelato i fondi dell’organizzazione Tehrik e Taliban di Baiatullah Mehsud, considerato l’organizzatore dell’attentato contro l’hotel Marriott. Nei giorni e settimane successivi alla misteriosa sparatoria di metà settembre le notizie sul fronte tribale concernono l’offensiva condotta da reparti speciali del generale Tariq Khan, non dall’esercito regolare, nella regione del Bayaur. Per un altro verso, la confusione esistente nell’esercito è anche più vistosa per il servizio di sicurezza, l’Isi, sul quale si appunta l’attenzione di Washington –oltre che del governo Karzai- con accuse di doppiogiochismo o mancato controllo del pezzo così detto deviato. Non si tratta certamente di una novità ma la situazione si è avvitata e le accuse si sono fatte più gravi dopo l’attentato all’ambasciata indiana a Kabul del 7 luglio, la cui mente viene individuata, appunto, nel servizio pakistano.

Nella sua visita ufficiale a Washington di fine luglio, il premier Yussuf Gillani, accompagnato dal ministro della Difesa Ahmed Mukhtar, si è sentito rivolgere l’accusa di sostenere di fatto la guerriglia, sia per gli accordi di governo sia tramite l’azione double face dell’Isi: cosa rivelata pochi giorni dopo, in un intervento televisivo, dal ministro che ha aggiunto: "il problema è chi controlla l’Isi". La spaccatura negli apparati rende instabile lo stesso governo, come si vede, sempre a causa del controverso rapporto con gli Usa e delle azioni militari nella zona tribale, dalla quale stanno fuggendo terrorizzate decine migliaia di persone. L’uccisione di Benazir Bhutto ha molto indebolito, se non rovinato del tutto, il progetto angloamericano di un’alleanza politica fra il partito della Bhutto e Musharraf, accompagnato dalle dimissioni di quest’ultimo da capo militare, e la debolezza si è accentuata per l’andamento altalenante e contraddittorio dell’alleanza con il partito Awami e la Lega mussulmana Nawaz, che ha riportato un successo notevole nelle elezioni di febbraio. E’ ovvio difatti che un coinvolgimento di queste forze rende impraticabile la netta scelta di campo richiesta da Washington,

Nelle zone tribali vicine al confine afghano, intanto, la presenza talebana si è consolidata: l’hanno ammesso ancora il generale pakistano Kiyani ed il capo di Stato maggiore afgano, Bismullah Kahn, in un recente incontro col generale americano David McKiernan, stimando i campi di addestramento della guerriglia in 80-100. Guerriglia non solo talebana perché nella zona si sarebbero concentrati i miliziani qaedisti delusi dalla spaccatura sunnita in Iraq, militanti provenienti da altri paesi arabi ed asiatici: centinaia dalla Turchia, dove al Qaeda è data in crescita da anni, dalla Cecenia, dall’Uzbekistan, dal Kashmir: miliziani questi ultimi addestrati a sofisticate tecniche di guerriglia proprio dall’Isi pakistano, guidati da ufficiali oppositori di Musharraf – alcuni dei quali dimessi o dimissionari per propria volontà, mentre altri resterebbero nella struttura come infiltrati- e da un mitico combattente contro le forze indiane, Maulana Kashmiri. E’ anche noto che i servizi occidentali non hanno mai perso l’idea che nella zona tribale sia nascosto l’ancor più leggendario sceicco Osama bin Laden, talora dato per morto, talora localizzato in una o nell’altra provincia ai confini afgani: in primavera, un portavoce della stessa guerriglia ha tenuto a dichiarare che "lo sceicco è in buona salute e segue le operazioni". I servizi occidentali sono anche convinti che l’azione militare sia accompagnata da un’intensa riorganizzazione politica e dal dibattito ideologico, incentivato dall’arrivo nella zona di intellettuali e teologi, che si svolge prevalentemente nelle madrasse. Questo il motivo dell’accanimento e dei eccidi perpetrati dalle forze americane e Nato nelle scuole coraniche, fra i quali quello della Moschea rossa di Islamabad, nel luglio 2007.

Sarebbero queste nuove forze l’artefice primo della rinnovata vigoria della resistenza talebana, cui assistiamo dall’anno scorso e particolarmente dalla strage della Moschea rossa. Come i nazionalsocialisti di Hitler, che distruggevano le sinagoghe, gli Usa perseguono la convinzione che solo attaccando e distruggendo i luoghi di culto e di aggregazione intellettuale si possa riportare la vittoria sui nemici. Ad Hitler non è andata bene e, dalle premesse, si può intravedere un analogo risultato delle ‘stragi empie’ nelle moschee e nelle madrasse: la risposta della guerriglia islamista all’escalation stragista della coalizione è stata difatti puntuale e forte, come documentiamo nel dossier a fianco. Lo è stata su entrambi gli scenari di guerra, l’Afghanistan ed il Pakistan, che si confondono fino a diventare uno solo.

Lo si vede nei modi e negli obiettivi della guerriglia: si leggano, per fare un esempio, gli attacchi all’hotel Serena di Kabul e all’hotel Marriott di Islamabad (v. notizie del 14 gennaio e 20 settembre 2008), lo spettacolare assalto al carcere di Kandahar con la liberazione di circa 400 prigionieri politici, in gran parte riparati nella zona tribale pakistana (v. 14 giugno 2008); l’attenzione all’attacco delle vie di rifornimento della coalizione, che partono dal Pakistan (v. notizie del 9 maggio e del 12 agosto 2008); la recrudescenza di attentati contro i volontari delle Ong, accusati di spionaggio o anche solo di proselitismo religioso, come da ultimo l’uccisione di Gaye Williams (v. 20 ottobre 2008), reazione cruda alla distruzione di luoghi islamici. Il tiro si è alzato anche contro il vertice militare e politico: l’uccisione del generale Mushtaq Beg, una settimana dopo le elezioni pakistane (v. 25 febbraio 2008), il rapimento dell’ambasciatore pakistano a Kabul, l’attentato contro Karzai (v. 14 e 27 aprile 2008), già si è detto dell’uccisione di Benazir Bhutto, attribuita al pezzo filo- talebano dell’Isi. La presenza di forze islamiste e qaediste diverse dai Talebani ma al loro fianco è confermata, oltre che dalla maggiore potenza ed abilità militare, da una maggiore indifferenza, quando non spregio, della vita dei civili. Magari son passati un paio d’anni e però gli appelli del mullah Omar a risparmiare i ‘civili innocenti’, fare attentati in luoghi non affollati od organizzare collette per i familiari delle vittime o dei feriti sembrano lasciare indifferenti i così detti neotalebani.

Non dev’esserne contento il mullah Omar, la cui direzione della lotta di liberazione risulta indebolita. E’ certo che da almeno due anni il leader abbia preso l’iniziativa per colloqui inter- afgani, vi sono stati probabilmente anche incontri alla Mecca con esponenti di Karzai (v. note 18 agosto 2007 e 25-27 settembre 2008) ma la precondizione per un qualsiasi accordo di pace resta naturalmente il ritiro degli aggressori; i quali non solo hanno tutt’altre intenzioni ma hanno posto a propria volta le proprie precondizioni a Karzai, fra le quali l’esclusione del mullah, perché non sottomettibile. Come la più nota mediazione tra Hamas e Fatah anche questo sforzo saudita, che probabilmente esiste nonostante smentite varie, pare destinato al fallimento: che possibilità vi è di accordarsi quando una fazione è sottomessa ad un occupante in armi? E così l’escalation continua, facendo strage di civili, oltre che di patrioti, e destabilizzando l’intera area.