Morire
per il Dalai Lama? (aprile 2008)
La
questione tibetana, tornata improvvisamente sotto i riflettori dal marzo, è un
altro pasticcio internazionale che non si sbroglierà facilmente: tanto meno con
l’irrigidimento delle parti, gli scontri e la repressione, entrambi violenti,
le vistose contestazioni delle Olimpiadi di Pechino, seguite com’era
prevedibile da grosse contro- manifestazioni cinesi. Mutuando un fondamentale
insegnamento buddhista, si direbbe che la spirale della violenza e della rigidità
in atto allontanerà ancora nel tempo una soluzione pacifica ed equilibrata del
conflitto. Un altro saggio insegnamento dice (sintetizzo naturalmente) che,
prima di pensare alle soluzioni, occorre saper vedere la realtà con occhio
distaccato, illuminare le cause di ogni evento, cogliere la immancabile
interconnessione fra di essi, partendo da lontano e senza rimozione alcuna, e
scoprire così la verità senza farsi confondere dall’apparenza e dalla
faziosità.
La
rigidità comincia appunto dalle cause del conflitto, dalla storia del Tibet.
Non è vero che questo sia da tempo immemorabile una provincia cinese e non è
vero nemmeno che fosse uno stato sovrano ed indipendente, prima di essere invaso
dall’esercito di Mao Tse Tung. La storia delle due entità, invece, si
intreccia da secoli in modi complessi e mutevoli nel tempo. In questa
riflessione possiamo dare dei cenni, consigliando di approfondirli. In ogni
caso, ciò che si dovrebbe fare, prima di assumere una posizione, è sapere di
che si sta parlando. Diversamente si da solo aria alla gola: proverbio
universale stavolta, consigliabile a molti.
L’Impero
tibetano, dopo aver inglobato fra il VI e il VII secolo d.c. tutti i territori
di lingua tibetana, e qualcosa di più, fu un’entità libera e potente fino al
X secolo. Durante quel periodo avvenne, nel 763 d.c., il primo rapporto con
l’attuale avversario, a parti invertite, con l’invasione tibetana di
territori cinesi, seguita sessant’anni dopo da un trattato di spartizione e
delimitazione provvisoria dei confini. Il declino dell’Impero durò due
secoli, che videro anche una guerra civile innescata dalla repressione del
buddhismo sotto il regno di Wudum Tsen. L’indipendenza
finì, a partire dai primi del XIII secolo, con l’invasione mongola guidata da
Gengis Khan che, pochi anni dopo, occupò anche la Cina. Il così detto
Protettorato mongolo sul Tibet, imposto e non richiesto, durò quattro secoli e
mezzo, con alterne vicende nel rapporto con i regnanti tibetani, contrassegnate
comunque da un rapporto di stretta dipendenza di questi ultimi. Nel XVII secolo
il V Dalai Lama, Lobsang Ghiatso, perfezionò il regime di commistione fra
potere civile e religioso, anch’esso sostanzialmente importato dai mongoli,
allo scopo dichiarato di unificare le famiglie feudali e porre fine ai conflitti
interni. Con il primo intervento cinese in funzione anti- mongola, il Tibet
riacquistò una fragile indipendenza, turbata dall’espansionismo britannico e
da un’invasione nepalese (1774), sconfitta anche in questo caso da un
intervento della Cina: la quale, come potenza protettrice, stipulò con il Nepal
un trattato di delimitazione confinaria e non invasione nel 1856. Questa è
l’origine dell’influenza cinese sul Tibet: l’emancipazione parallela dai
mongoli, un Protettorato risalente al XVIII secolo, inizialmente richiesto dai
regnanti tibetani, che non equivale dunque né ad una provincia né ad uno stato
indipendente nel senso comunemente inteso.
La
Gran Bretagna a sua volta, dopo aver completato l’occupazione dell’India
intorno alla metà dello stesso secolo, circa ottant’anni dopo continuò
l’espansione imponendo un Protettorato sul confinante Kashmir, infine
intervenne militarmente a più riprese, tra la fine Ottocento e gli inizi del
Novecento, nel Tibet (sul quale si stavano appuntando anche gli appetiti degli
Zar russi) imponendogli, nel 1904, un nuovo protettorato ed un trattato che gli
impediva, fra l’altro, di stringere relazioni estere di qualunque tipo senza
il consenso britannico ed imponeva il pagamento annuale di una cifra pari a 2,5
milioni di rupie. Due anni dopo la Cina indusse gli inglesi ad un nuovo trattato
mediante il quale i due ‘proteggenti’ s’impegnavano a lasciare al Tibet
un’ampia autonomia di governo, impedire che altre nazioni vi interferissero,
mentre la Cina si accollava l’onere del pagamento imposto dagli inglesi. La
prima parte del trattato fu peraltro elusa sia dall’Inghilterra sia dalla
dinastia mancese che, entrambe col pretesto di liberare il paese
dall’ingerenza dell’altro, vi inviarono anche truppe. La prima rivoluzione
cinese, guidata dal nazionalista Sun Yat Sen, fece arretrare la situazione
tibetana dal punto di vista politico- giuridico, rivendicando l’unificazione a
tutti gli effetti delle ‘terre separate’ - Tibet, Mongolia, Taiwan, le isole
Pescadores, Hainan- alla ‘madrepatria’. Il proposito non potè essere
immediatamente realizzato causa la colonizzazione giapponese, che s’intrecciò
alla lunga guerra civile fra i nazionalisti del Kuomintang ed i comunisti
guidati da Mao Tse Tung, usciti vittoriosi nel 1949: saranno loro a completare
la rivoluzione nazionale incompiuta da Sun Yat Sen, un secolo dopo gli ultimi,
analoghi rivolgimenti in Occidente che portarono agli Stati moderni, fra i quali
il nostro.
L’anno
seguente l’attuale Dalai Lama Tenzin Ghiatso, appena quindicenne, ed il
Panchen Lama, seconda autorità spirituale anch’egli adolescente, fecero
l’errore di richiedere alla Cina la continuazione dell’azione proteggente
declinata negli ultimi trent’anni, vuoi perché spaventati dalla
potenza angloamericana uscita vittoriosa dal conflitto mondiale, mentre si
assisteva ai prodromi della guerra di Corea, vuoi rassicurati dalle
dichiarazioni antimperialiste del nuovo regime. Questo errore, unito alla
motivazione di “liberare i tibetani dal giogo britannico” e da quello
feudale interno, furono il pretesto per una vera e propria invasione, questa di
certo non richiesta, attuata militarmente ed assai facilmente poiché il Tibet,
paese senza effettiva indipendenza come si è visto, mancava di un vero
esercito. In quel contesto, solo in
parte spiegabile con il timore di un’estensione della guerra di Corea, i
comunisti di Mao imposero al Dalai Lama un ‘accordo di pacificazione’,
prodromo di un ‘Trattato in 17 punti’ che venne siglato l’anno successivo,
nel maggio 1951. L’accordo prevedeva, similmente a quello imposto dai
britannici, la sovranità limitata del Tibet che rinunciava ad una politica
estera indipendente, vista con preoccupazione dai cinesi causa la guerra
cosiddetta fredda (in verità caldissima), ed un programma riformatore di
superamento dei rapporti feudali, abolizione della schiavitù, modernizzazione
che si dichiarava rispettoso dell’autonomia tibetana e graduato nel tempo.
Promesse, come noto, del tutto mancate nel futuro.
Poco
dopo aver siglato l’accordo, in un momento (se non erro) tuttora non databile
con certezza, il Dalai Lama ed il Panchen Lama, spaventati dalla prospettiva di
perdere il potere e di un progressivo snaturamento dello Stato, fecero un
secondo, fortissimo errore: ricorrere segretamente a Washington. Dagli anni
Cinquanta ai giorni nostri, la Cia ha rifornito di armi e denaro gli
indipendentisti tibetani, li ha addestrati, ha fomentato periodiche rivolte
finalizzate a provocare una vasta sollevazione anti- cinese. Più che averne un
effettivo aiuto, la eterodirezione della ribellione indipendentista, giocando
sulla paranoia da accerchiamento dei cinesi, fu l’effetto moltiplicatore di
una spietata e continuativa repressione, i cui momenti più intensi furono il
1959 (quando Tenzin Ghiatso ed il suo entourage si esiliarono a Dharamsala,
India) ed il biennio 1966-1968. Pur mancando stime ufficiali, è generalmente
accettato il bilancio di oltre un milione di morti, decine di migliaia di
profughi, diverse migliaia di arresti a ondate successive, migliaia di monasteri
distrutti o sgomberati; mentre la migrazione cinese nel Tibet storico ha
prodotto nel tempo l’effetto del superamento (7 milioni circa di etnia han, in
continuo aumento, contro 6 di tibetani). Dove i tibetani sono ancora maggioranza
schiacciante, è la cosiddetta ‘TAR’, la regione dell’altopiano con
capitale Llhasa, comprendente la parte maggiore della catena dell’Himalaya,
dichiarata formalmente ‘Provincia autonoma del Tibet’ nel 1964, retta da un
governatore di etnia tibetana ed uno statuto autonomo simile a quello dello
Xinjiang, del Guangxi e della Mongolia interna. Quando si parla di Tibet,
occorre dunque non confondere la regione storica, ormai a maggioranza cinese e
‘modernizzata’, non desiderosa quindi di staccarsi dalla Cina (tranne locali
sacche di resistenza), dalla regione di Llhasa, a tutt’oggi ribelle: la quale
ultima avrebbe, a logica, tutti i motivi oggettivi e soggettivi per rivendicare
una più effettiva autonomia di quella nominale.
Da
questo punto di vista, però, i tempi stringono perché la migrazione han viene
incentivata dal regime cinese anche nella TAR e, nonostante le caratteristiche
del territorio, è oggi facilitata dal completamento della rete di collegamento
Pechino- Llhasa: superfluo aggiungere che gli ultimi avvenimenti indurranno i
cinesi ad agire in questo senso. Di ciò sembra consapevole lo stesso Dalai Lama
le cui dichiarazioni, da qualche tempo, vanno più nella direzione di una
richiesta di autonomia, che di un’indipendenza vera e propria; e che dopo
l’ultima rivolta (con l’uccisione – pare- di una ventina di cinesi, fra i
quali un poliziotto linciato nel tumulto, incendi di abitazioni e simboli
cinesi) ha condannato la violenza ventilando le proprie dimissioni da capo
spirituale e politico dei tibetani se questa non cesserà e se non cesserà la
repressione. Formalmente, una posizione condivisibile ed anzi impeccabile. Non
tanto però da tranquillizzare i cinesi per il contesto nel quale viene
espressa, del tutto in continuità con il passato.
Si
vedano per esempio le visite di Tenzin Ghiatso negli Usa, fatte in momenti più
che significativi. Fra le altre, poco
dopo la demenziale previsione di Hungtinton di un attacco americano alla Cina
(collocato proprio nel 2008), egli si recò a Washington dando un certo clamore
all’evento: il governo di Pechino reagì stizzosamente ponendo il veto
addirittura ad una sua partecipazione ai lavori del vertice mondiale dei
rappresentanti religiosi, a New York sotto l’egida Onu, accusandolo di essere
“un famigerato fomentatore di disordini”. Analogamente l’anno scorso,
nell’ottobre, il governo cinese reagì all’incontro “privato” fra il
presidente Bush e il Dalai Lama, seguito dal conferimento di un’onorificenza
molto significativa, denunciando un piano anti- cinese alla vigilia delle
Olimpiadi di Pechino e delle elezioni a Taiwan. Ne è seguita con perfetto
tempismo l’ultima rivolta, chiaramente eterodiretta come le precedenti, così
come sono state preordinate e per nulla spontanee le contestazioni dei giochi
olimpici in Europa ed a San Francisco, dove si è raggiunto il max della
pacchianeria all’americana, con i monaci scortati dal FBI, gli slogan
secessionisti (relativi perdipiù a tutto il Tibet e non alla TAR), l’ascesa
al Golden Gate fintamente improvvisata eccetera. In tutte queste occasioni si è
mobilitato con notevole rumore il trasversale partito americano (in Italia, per
fare l’esempio più vicino, si sono mosse le solite forze - Radicali, An,
Lega, Sinistra per Israele - un esponente della quale ultima, il sottosegretario
Gianni Vernetti, ha impiegato il termine più forte del linguaggio diplomatico
“convocando” l’ambasciatore cinese per spiegazioni). C’è stato poi il
perentorio invito, rivolto dalla Casa Bianca alla Cina, ad accontentare il Dalai
Lama, seguito a ruota dalle autorità europee, e la pesantissima uscita del
segretario di Stato Condoleeza Rice, il 6 aprile, sulla intenzione statunitense
di aprire un proprio consolato a Llhasa. Ora, è noto che i consolati si aprono
laddove vi sono un bel po’ di residenti dello Stato in discorso – e non è
questo il caso- piuttosto noto è anche che i consolati sono controllati dai
servizi di sicurezza. Quelli statunitensi, poi, sono famigerati. Un’uscita
provocatoria quindi, destinata ad accrescere l’irrigidimento cinese, non certo
a smorzarlo, e ad allontanare quell’autonomia politica, vista dai cinesi come
foriera di intrighi statunitensi anche peggiori. Inoltre le manifestazioni
tibetane, nel marzo a Llhasa e nei primi di aprile nel Sichuan, non hanno
adottato le parole d’ordine indicate recentemente dal Dalai Lama ma sono state
secessioniste ed invocanti la cacciata dei cinesi.
Nel
contesto vanno considerati anche gli scontri di fine marzo nella zona islamica
dello Xinjiang, dopo la morte in carcere più che sospetta di Mutallip Hajim
(ufficialmente per arresto cardiaco). Gli uiguri chiedono la libertà religiosa
ed associativa e la liberazione dei prigionieri politici, ma la notizia è stata
oscurata dagli scontri in Tibet. Non casualmente perché gli uiguri, una
popolazione turcomanna, 16 milioni circa di persone, sono islamici – molti fra
essi simpatizzano per al Qaeda- e Washington è restio perciò ad appoggiarli.
Per avere un casus belli- in senso ampio- con la Cina continuerà certamente a
preferire i tibetani agli uiguri, come nel passato, facendo rivivere il vecchio,
provocatorio interrogativo scelto come titolo per questa riflessione. Infine, ma
estremamente importante, vi sono state manovre navali statunitensi nello stretto
di Formosa, alla vigilia delle elezioni a Taiwan, e si deve ricordare il così
detto “errore” (parola di Robert Gates) per il quale, nel 2006, Washington
inviò appunto a Taiwan detonatori per missili nucleari. Ecco come la spirale di
tensione, di cui si diceva all’inizio, è tornata al massimo.
Si
dovrebbe allora, per tutto quanto sopra, per non trovarsi a ‘morire per il
Dalai Lama’, sposare la linea cinese? No davvero. La prima sentenza
pronunciata dalla magistratura di Pechino il 29 aprile, in relazione ai fatti
del marzo a Llhasa (17 condanne, per reati che vanno dall’incendio doloso
all’omicidio, con pene reclusive da 3 anni all’ergastolo per i casi più
gravi) è apparsa tutto sommato blanda, comunque non più aspra di quanto
praticato altrove. Non così la precedente scelta di stroncare la rivolta
inviando carri armati a Llhasa, in luogo della polizia e dei servizi, con
l’inevitabile seguito di morti. In proposito manca ancora una stima
attendibile, per la mancanza di fonti indipendenti: ma qualche decina è
probabile, se non i cento ed oltre denunciati dai monaci. Non si può
condividere a nessun costo, più in generale, la scelta della repressione in
luogo del discorso, troppo a lungo interrotto, la negazione della libertà
religiosa e culturale: che per sé, se concessa, non porta intrighi del nemico
ma semmai li spenge. Proprio il caso di Taiwan fornisce un esempio di come la
Cina potrebbe rompere con il passato sposando una linea più seduttiva: così
seduttiva ed efficace che le elezioni a Taiwan erano date per vinte, da almeno
un anno, alla fazione filo- cinese che rivendica l’unità con la ‘madrepatria’.
L’autoritarismo del regime cinese è noto, anzi famigerato anch’esso. Ma
come non capire che conviene alla stessa Cina restaurare i monasteri, anziché
chiuderli? Conquistare i tibetani, anziché opprimerli, per togliere l’acqua
al nemico? Per Formosa l’hanno capito bene, tanto che la fazione avversa
accusa la Cina di essersela comperata.
Circa
l’altro contendente, cominciando dalla sua massima autorità, almeno
apparentemente assai più ragionevole, viene da chiedersi che consiglieri abbia
mai Tenzin Ghiatso da non aver capito, in tanti decenni, quanto sia stata
disastrosa la protezione statunitense. Disastrosa dal punto di vista del Tibet,
naturalmente. Da altri punti di vista il giudizio è più complesso: oltre la
notorietà, il premio Nobel per la pace, è quasi certamente vero che gli Usa
finanzino il così detto governo in esilio di Dharamsala, come affermano fonti
cinesi, idem per altri flussi di finanziamento verso i monasteri moltiplicatisi
in Occidente, la diffusione editoriale eccetera. Per avere frequentato anni fa
alcuni di quei luoghi, causa il fascino del pensiero e della meditazione
buddhista, posso dire di aver sentito in più di un’occasione un
inconfondibile odor di dollari, in un caso anche di shekel: motivo che mi ha
spinta a non approfondire il contatto. Peccato per il buddhismo, a parer mio: ma
altri, come è ovvio, possono vedere le cose diversamente. Tornando al Tibet, il
disastro è invece totale, incontrovertibile - gli ultimi avvenimenti ne sono
conferma- in termini di oppressione, di vittime, di libertà negate, di tutto. Ci vorrebbe una svolta netta, strategica e tattica, che tagli
via l’ingombrante protettore americano cercando di sostituirlo con entità che
possano svolgere un effettivo ruolo di mediazione e facilitazione dei colloqui
con l’avversario (che so, l’India). Occorre chiedersi perché siano falliti
i contatti negli anni Ottanta, quando il Dalai Lama propose la mediazione
statunitense? Era ovvio che fallissero. In secondo luogo, se l’autonomia
politica inasprisce la diffidenza cinese, perché non ragionare invece in
termini di intesa religiosa e culturale? Un’intesa di contenuto ampio, che
preveda la libertà di insegnare nelle scuole il tibetano, lo status dei
monasteri, ed anche un contenuto economico che la Cina, volendo, può certamente
permettersi.
Vorrà,
e prima ancora potrà, il Dalai Lama fare una scelta del genere, rinunciando al
ruolo più propriamente politico svolto finora? O la tela di ragno tessuta dal
peloso proteggente l’ha invischiato, insieme al suo entourage ed a parte del
mondo buddhista sparso per il mondo, in modi tali da non consentirlo più? La
regia degli ultimi eventi, come si è detto, è stata così pacchiana da rendere
chiara la mano americana, più che tibetana (quest’ultima sarebbe stata più
raffinata). Ancora, ci si può chiedere quanto il Dalai Lama, in esilio dal
1959, possa controllare effettivamente la situazione interna. I così detti
giovani che hanno guidato la rivolta di marzo, ansiosi di differenziarsi dal
capo spirituale ed insofferenti delle prediche sulla non violenza, sono
probabilmente legati al tessitore di tela ancor più di lui, così da far
intravedere una strategia, sempre eterodiretta, di scavalcamento. Un’altra
tendenza, più pragmatica da parte cinese e più indipendente da parte tibetana,
ancora non si vede. Ma un’inversione a tutto campo è necessaria o sarà
troppo tardi. Che una simile svolta sia compiuta spontaneamente dai cinesi pare
irrealistico. Che i tibetani siano in grado di farla per primi, rompendo così
la perniciosa spirale che si diceva, è una speranza migliore ma ancora fragile.
Per chi scrive, è soprattutto un augurio.