Il new dream ovvero un vecchio incubo (novembre 2008- m.m.c.)

Parliamo della presunta svolta americana, che occupa questi giorni novembrini, descritta come foriera di cambiamenti epocali sol perché il nuovo presidente è nero, mediatico e charmant. Non ci occupiamo in questa rubrica di politica interna, quindi neanche delle promesse del pupillo di Wall Street agli elettori statunitensi sulla ipotizzata risurrezione economica di quel paese. L’aspetto più sconcertante del gigantesco battage pubblicitario, ingaggiato dagli americanisti in ogni dove, è del resto la politica estera: sulla quale tutti costoro annunciano il buon fine delle guerre di aggressione, una svolta multilateralista, un nuovo mondo, sempre guidato dalla stella americana of course, improvvisamente tornata a brillare per dispensarci pace e giustizia.

Ma quando mai. E’ lo stesso interessato a smentire tutto ciò. Anzitutto con una campagna elettorale che ha esaltato, al pari di quella repubblicana, il ruolo- guida dell’America ed ha entusiasmato per conseguenza anche molti tradizionalisti, neocon, predicatori religiosi disillusi dall’inefficacia del bushismo a garantire nel futuro il ruolo del ‘popolo eletto’ per eccellenza e la ‘missione speciale’ di dominanza del mondo che gli spetterebbe per mandato divino. Inoltre con dichiarazioni concrete e fatti concludenti.

Appena avuta la nomination democratica, il 5 giugno, Barak Obama ha tenuto il primo discorso pubblico alla lobby sionista, scelta non casuale, palesando il fedele allineamento ad essa ed al suo stato- guida, Israele, l’omologo americano eletto sempre da Dio – rectius, un Dio alleato- per dominare il Medio Oriente. E’ stato talmente zelante che "neppure il Likud ai tempi di Menachem Begin", ha scritto la stampa israeliana perdonandogli gli "elementi di provenienza radicale" ed i "mussulmani americani" con i quali si sarebbe mal accompagnato in gioventù. Lo zelo è giunto a perorare "Gerusalemme capitale indivisa di Israele", cioè il completamento del furto ai danni dei palestinesi e la violazione di tutte le risoluzioni dell’Onu in materia; e ad attacchi all’Iran con toni da gareggiare con i bushisti. Doveva superare questi ultimi che, appena il giorno prima, avevano accompagnato l’incontro Bush- Olmert – e contemporaneo incontro dei due servizi segreti- centrati entrambi sull’attacco politico all’Iran e, si suppone, sulla continuazione delle operazioni segrete in terra iraniana (la stampa americana ha pubblicato addirittura gli stanziamenti e le nuove autorizzazioni presidenziali), culminate nell’attacco stragista alla moschea di Shiraz il 12 aprile, la cui responsabilità è stata denunciata dalle autorità di quel paese. Le promesse ai sionisti sono state ripetute in occasione della visita di Obama in Israele il 27 luglio, "con Hamas non si può trattare", "Gerusalemme capitale di Israele", "il mondo deve impedire all’Iran il programma nucleare" eccetera. Si noti fra l’altro l’identità anche formale col linguaggio bushista dove "il mondo" coincide con l’asse Washington- Gerusalemme ed i suoi desiderata.

Subito dopo la vittoria, ancor prima di nominare lo staff, la prima scelta annunciata è stata quella del capo Gabinetto, Rahm Emanuel, figlio di due componenti dell’Irgun, la formazione terroristica di Menachem Begin, volontario in Israele durante la prima guerra del Golfo ed esponente di spicco della lobby. Nel primo discorso settimanale seguito alla vittoria, Obama ha indirettamente replicato ad un messaggio augurale del presidente Mahmoud Ahmadinejad (che evidentemente si proponeva di non perdere mesi per snidare il nuovo eletto) ripetendo gli ordini bushisti all’Iran di sospendere il programma nucleare (che, sempre per diritto divino, spetterebbe all’America e nel Medio Oriente al solo Israele) e di troncare l’appoggio ai "terroristi", coloro cioè che non si sottomettono all’asse predetto. Ancora una volta forma e sostanza sono in perfetta continuità col presidente attuale George Bush e naturalmente, tali dichiarazioni e scelte sono anche più significative per la priorità che vi è stata data.

Tali essendo le scelte mediorientali, comuni ai due schieramenti, neanche si comprende quale sia l’ipotizzato sbocco positivo in Iraq, dove il nodo è da tempo non tanto il ritiro in sé delle truppe, all’ordine del giorno dato che il mandato Onu scade a fine anno, quanto le sue condizioni: Usa ed Israele vogliono instaurare una sorta di protettorato nel nord del paese, il più ricco della risorsa petrolifera ed il più sottomesso - grazie alla fedeltà dei curdi ed alla pulizia etnica da essi condotta ai danni delle altre etnie, così da proporsi come élite collaborazionista che controlla il territorio – ed installare permanenti basi anche in altre zone del paese, in funzione dominante dell’area ed aggressiva verso l’Iran (vedi dossier iracheno in questa stessa rubrica). Sono queste pretese dispotiche – il bottino di guerra rivendicato dagli Usa- non le caratteristiche soggettive del presidente, a bloccare da mesi l’accordo sul ritiro del grosso delle truppe. Si rammenti che l’alleato iracheno degli Usa, il premier Nouri al Maliki, è un alleato dimezzato (perché ogni sciita sarà sempre più alleato di Teheran che di Washington) ed ha rinnovato anche recentemente la garanzia all’Iran che il paese non fungerà più da base agli attacchi contro di esso. Come ce ne possano uscire siffatti alleati non è dato capire, tanto meno dagli sragionamenti dei fans di Obama. Si ricordi che la critica principale, per altro piuttosto tardiva, avanzata dai Democratici ai Repubblicani circa la guerra all’Iraq non è mai stata di tipo pacifista (parliamo dell’estabilishment evidentemente, non delle illusioni di attivisti di base) ma verteva sulla considerazione dell’aiuto involontariamente fornito dagli Usa all’Iran, sbarazzandolo gratis del nemico Saddam Hussein e dell’espansionismo baathista e promuovendo l’ascesa al potere dei ‘fratelli sciiti’. In questo senso si comprende bene la fretta di Obama di ribadire la scelta anti- iraniana e tranquillizzare Israele sulla comune vocazione guerrafondaia.

La inverosimiglianza della pax obamiana si riscontra allo stesso modo sull’altro scenario di guerra, costituito dall’Afghanistan e dalle regioni di frontiera del nord- est pakistano. Scenario dove il nostro, reagendo ai dati sui soldati statunitensi caduti nell’estate ed ai rapporti dei servizi circa l’incapacità della coalizione e del governo Karzai a fronteggiare la resistenza, ha garantito il rafforzamento del contingente bellico (almeno due nuove brigate, circa 8000 soldati), da rimpinguare anzitutto con le forze che si potranno sganciare dall’Iraq: vecchia rivendicazione dei Democratici che si aggiunge alla critica appena detta verso i rivali, quella cioè di aver privilegiato la guerra in Iraq e non aver profuso sufficienti energie nel combattere i Talebani ed al Qaeda (leggi i discorsi di Obama ed i commenti in "Il comandante Barak" di Enrico Piovesana sul sito www.peacereporter.net) . Accusa effettivamente ingenerosa e soprattutto nient’affatto foriera di pace. Così come è una rivendicazione democratica, o meglio comune ai due schieramenti, lo sradicamento, che si è deciso di attuare anch’esso con il bombardamento, dei campi d’oppio per togliere risorse alla guerra di resistenza ed affamare la popolazione, ovviamente quella che sostiene i Talebani, non naturalmente i campi che foraggiano i mafiosi ed i signori della guerra che sostengono il debole governo Karzai, a cominciare dal fratello di quest’ultimo, noto narcotrafficante. Cara il cambiamento.

Venendo all’Est lo scenario pare l’opposto di una possibile pacificazione, almeno nelle intenzioni americane (vedi Guerra fredda sempre calda) circa la situazione del Caucaso e lo scudo missilistico. Obamisti soi disant amanti della pace si sono buttati a capofitto sulla telefonata intercorsa fra il loro beniamino ed il presidente polacco Kaczynski, nella quale il primo non avrebbe voluto prendere un impegno immediato circa le testate missilistiche. Ma sia il polacco sia il portavoce americano McDonough hanno precisato non solo (il secondo) che naturalmente Obama non intende insediarsi prima del tempo, ma che la posizione nella sostanza "resta che lui appoggerà la installazione dello Scudo quando la tecnologia per realizzarla si dimostrerà fattibile"; mentre, come noto, i russi hanno trovato il modo di ‘bucarlo’e disturbarlo con le testate a Kaliningrad e le apparecchiature elettroniche collegate. Dunque, se lo Scudo si dimostrerà impraticabile o avrà un rallentamento – vedi il rinvio suggerito dal vertice Russia- Ue appena concluso a Nizza mentre scrivo questa nota- lo dovremo alla tecnologia russa ed al Cremlino, non ai Democratici americani.

Ancora, da questi ultimi non si è sentito un bhe sul raid statunitense in Siria per uccidere ‘sospetti’ né sulle sanzioni al monopolio statale russo Rosoborone ed a società cinesi per l’export di armi alla stessa Siria, che ha suscitato un’aspra reazione del Cremlino ("arroganti applicazioni extraterritoriali della legge americana senza alcun fondamento giuridico"). Neanche si è avuta alcuna dissociazione dall’atteggiamento irritato con cui il governo americano ha reagito all’offerta di Tripoli, che ha seguito quella di Damasco, alla Russia di fornire una base d’appoggio per le sue navi nel Mediterraneo, quasi spettasse per diritto divino al solo ‘poliziotto del mondo’ fruire di simili concessioni. Quale sia dunque la distensione verso il nemico storico, immaginata dai fantasiosi sostenitori di Barack Obama, non è dato capire.

Anche sui rapporti con la Cina i nostri elencano una serie di desiderata immaginando un effettivo coinvolgimento della potenza asiatica nel G8, soprattutto al fine di giungere ad una riscrittura delle regole della finanza globale – si parla di una ‘Bretton Woods 2009- a beneficio dell’Occidente e della sua potenza leader, il cui debito vertiginoso è per quasi il 45% in mani straniere e particolarmente di cinesi e giapponesi. Non si vede per altro quale interesse abbia mai la Cina, oltretutto già riluttante ad entrare nel G8, la cui rappresentatività e prestigio sono in continua discesa, ad una riscrittura che avvantaggi il rivale od intacchi il suo ruolo creditorio; bensì il mero interesse a salvare il suo export verso gli Usa (oltre 320 mld $ contro 65 di import in senso inverso). Fra parentesi non si capisce come l’irrealismo del detto desiderio occidentale si possa attutire proprio ad opera di chi, come Obama, nella campagna elettorale ha accarezzato la sirena protezionistica, foriera naturalmente di maggiore conflittualità con la Cina, e non viceversa.

Ancora, se non si può mai scindere l’aspetto economico di un conflitto fra potenze da quelli politici e militari, ciò vale a più forte ragione nel caso di una nazione il cui commercio estero dipende dalle rotte marittime per l’80-90% e che da vent’anni sta potenziando a ritmi notevolissimi l’industria marittima, la flotta e la messa in sicurezza dei corridoi di rifornimento degli idrocarburi nell’Asia del sud. Consiglio di leggere per documentarsene, da ultimo, una accurata analisi di Olivier Zajec su "Le Monde diplomatique" del settembre che spiega fra l’altro l’importanza strategica per la Cina dello stretto di Malacca – dal quale passerebbe tuttora l’80% di detto rifornimento- e di Taiwan, la frontiera con la ‘linea blu’ oceanica controllata dalla VII Flotta (contenzioso, quello su Taiwan, potenziato dalla recente vittoria elettorale della fazione filo- cinese). L’analista illustra altresì le reiterate pressioni sul Congresso e sulla Casa bianca dei responsabili della VII Flotta, allarmati dall’informativa che in un solo anno gli Sna cinesi (sommergibili di attacco nucleari) avrebbero effettuato più ore di missione che nei 5 precedenti.

Eppure, mentre tutto lo scenario sembra andare verso una maggiore confliggenza, si va immaginando un ‘asse anti- petrolio’ fra America e Cina: questo il titolo del "Corriere" del 6 novembre ad un’intervista di Paul Berman che auspica appunto un coinvolgimento della Cina nella c.d. governance globale; ancorché segnali egli stesso "il pericolo che la Cina costruisca un sistema economico rivale e alternativo" basato appunto sul petrolio. Più che un pericolo, da quanto si è detto, questo sembra una cosa inevitabile per tutta una fase. Sullo stesso giornale, nell’inserto economico del 3 novembre, si legge in proposito un commento più interessante dell’economista Sandro Trento che, dopo aver ricordato come gli Usa siano ormai il più grande debitore netto mondiale, avanza dubbi sul mantenimento della loro leadership osservando che essi l’hanno guadagnata, come precedentemente la Gran Bretagna, quando viceversa erano il più forte creditore mondiale. Ruolo- osserva- che oggi spetta alla Cina, "grande potenza industriale mondiale e, con il suo gigantesco avanzo commerciale, il più grande creditore netto" concludendo che "la nuova Bretton Woods va organizzata a Shangai" e "il nuovo Fmi e la nuova Banca mondiale vanno trasferiti a Pechino". Apposta cito non un altro antimperialista bensì un economista liberale, che ragiona in termini assai concreti di debito- credito: la storia finora gli dà ragione, non essendosi mai vista una potenza leader in debito, con un debito di quelle dimensioni. Piuttosto, non è detto che ci debba essere per forza un Fondo internazionale ed una Banca mondiale: da un anno e mezzo esiste un Fondo monetario asiatico, riferimento attuale per una dozzina di paesi, suscettibile di allargare la sua sfera di influenza e che può tranquillamente bypassare l’omologo occidentale, così come vi sono altre alleanze ed istituzioni transnazionali che non comprendono l’Occidente. Ma questo è un discorso che va approfondito diversamente.

Per concludere, non so davvero che differenze di sostanza vi siano fra Obama e Bush (o meglio, fra Obama e tutti i suoi predecessori) sullo scenario mondiale. Se qualcuno le vede può segnalarcele, come nel giochino enigmistico ‘trova le piccole differenze’. Mi pare più di moda un altro gioco, neanch’esso nuovo, fra i vari sostenitori del "we can", del "new dream", della "nazione sotto l’ala di Dio", del "nuovo imperatore Adriano", e così via, consistente nella gara a chi conquisterà il ‘tappetino d’oro’ per inchinarsi al solito padrone.