L’occupazione dell’Iraq (maggio 2003)

Distrutto tutto quanto era possibile distruggere mediante il diluvio di bombe, occupata Baghdad e le altre città, gli impianti petroliferi e tutti i punti nevralgici del Paese, il governatorato americano sull’Iraq è iniziato nel più sinistro dei modi. Il Paese ridotto in macerie, destabilizzato, con i marines pronti ad aprire il fuoco sulle manifestazioni di dissenso, sarà governato per un tempo tuttora imprecisato dall’uomo dell’estabilishment militare statunitense, Jay Garner, più legato alle potenti lobbies ebraiche: scelta non casuale.

Non si dubita che il controllo delle risorse petrolifere irachene sia stato un motivo importante dell’aggressione angloamericana contro l’Iraq, come il controllo del gas naturale lo è stato per l’aggressione contro l’Afghanistan (vedi la relativa cronologia, in questa stessa rubrica). Vedere solo questo aspetto, però, attutisce la comprensione della guerra angloamericana in corso e ben lungi dalla fine. Uno sguardo all’atlante evidenzia, allineati uno dopo l’altro, i paesi oggetto –purtroppo per loro- delle attuali attenzioni statunitensi. Siria, Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan disegnano un ponte ineludibile fra Mediterraneo e Cina, che l’avido despota mondiale intende controllare interamente e che, difatti, sta disseminando di basi militari. Il suo intento è dominare l’intera area medio orientale nel futuro breve, e prepararsi al tempo stesso il corridoio attraverso il quale attaccare, in un futuro non lontano, la potenza che più lo impensierisce per essere essa in grado, già ora e ancor più organicamente fra una decina di anni, di competere con la propria. Del resto l’aggressione alla Cina è stata prefigurata, in modo da non lasciar adito a dubbio, intorno al 2010.

Facendo un passo indietro, il ‘corridoio’ è appetitoso per il petrolio e, almeno allo stesso modo, ai fini dei piani espansivi di Israele, alleato di ferro dell’occidente quanto nemico del mondo arabo, che non si contenterà di inghiottire la piccola Palestina. E’ bella la invocazione ‘due popoli, due Stati’ che si alza dai cortei pacifisti: bella, quanto a tutt’oggi utopica perché mai il sionismo, dalla sua nascita ad oggi, ha ipotizzato la condivisione del territorio in condizioni di parità con lo sfortunato popolo palestinese. E’ quasi un secolo oramai che quest’ultimo invoca i propri diritti, impiegando ogni mezzo a sua disposizione –dalla diplomazia alla resistenza armata- ottenendo risposte sempre più evanescenti, quando non provocatorie. La ‘Grande Israele’ dal Tigri all’Eufrate, con l’aggressione all’Iraq, ha fatto un passo avanti: circondandosi a breve di territori non ostili, a formare una fascia di sicurezza, terreno di espansione domani. Il varo pressocché contemporaneo del governatorato sull’Iraq e di un governo normalizzatore in Palestina, chiamato esplicitamente a schiacciare la resistenza, sponsorizzato dagli Usa e sottomesso ad Israele, costituisce una conferma vistosa della globalità del progetto di dominazione sul Medio oriente. (vedi dossier Iraq).