Torture democratiche (maggio 2004)

La pubblicazione da parte della Cbs il 28 aprile, poi di "The New Yorker" a partire dal 2 maggio, a cura di Seymour Hersh, delle prime ‘foto souvenir’ scattate alle vittime irachene da torturatori americani e dei primi brani del rapporto Tuguba, ha fatto saltare il tappo della censura sulle efferate sevizie praticate ai prigionieri politici della guerra coloniale in corso. Da due anni e mezzo, a partire dall’aggressione dell’Afghanistan, erano emersi, sia la volontà americana di disapplicare la Convenzione di Ginevra – non ci voleva invero gran fantasia per immaginare il perché - sia dossier e denunce da parte delle vittime e delle loro famiglie, di Amnesty International, della Croce rossa, di organizzazioni pacifiste, delle televisioni libere arabe, le denunce giravano su Internet, e chiunque le avesse volute leggere, ascoltare o commentare avrebbe potuto farlo. Ma, come accade nei collegi delle monache o nei carceri, dove occorre il permesso del direttore o della direttrice per fruire l’ora d’aria, finché non è arrivato un americano a permetterlo (grazie magari, in questo caso, alla campagna elettorale imminente ed alle rese dei conti fra le lobbies statunitensi concorrenti), i fatti che rientravano nella visibilità di tutti non sono stati invece visti, non esistevano o non sono stati ritenuti degni di riflessione e denuncia per la più parte della pavida informazione e del mondo politico. Triste, quanto inoppugnabile. Adesso, a dispetto delle schiere di politici e giornalisti subito mobilitati per tentare di arginare il flop, in sole due settimane la figura del giovane iracheno incappucciato e legato agli elettrodi è diventata, quasi un Cristo nero crocifisso, l’immagine ed il simbolo dell’ultima guerra sporca voluta dagli Stati uniti, a testimoniare perfino in occidente, perfino in Italia, la vera natura della democrazia statunitense che si pretende esportare al mondo intero. E’ stato fatto il paragone con l’eccidio di My Lay per la guerra in Vietnam, e dette tante altre cose.

Vale la pena osservare più attentamente come i sostenitori della guerra cercano di rimediare il flop, che rivela aspetti inconsueti. Il metodo prevalente, la solita storiella delle mele marce, della prossima punizione dei colpevoli eccetera, stavolta, funziona meno del solito. Ci sono i rapporti conosciuti e firmati dal capo del Pentagono Donald Rumsfield (che, dopo averli smentiti, si guarda dal querelare chi li ha fatti emergere - come lo stesso informatissimo Hersh, molto addentro negli apparati - per evitare di essere sommerso dalle prove). C’è la concordanza delle denunce dall’Afghanistan a Guantanamo a Baghdad. C’è la simpatia della opinione americana per i torturatori, bene testimoniata per esempio (uno fra i tanti) dal gigantesco cartello ‘Siamo orgogliosi di voi’, appeso nella piazza del villaggio dove abita una delle secondine che, al pari delle stragi di patrioti e civili e delle sevizie, mette a nudo l’America e la sua democrazia. Dunque la storiella questa volta può agganciare la maggioranza degli americani, o gl’imbecilli, e basta.

Sono seguite grida sugli orrori praticati dal nemico, come la strage di Madrid o la oramai famosa decapitazione di Berg. Nonostante gli sforzi dei Ferrara, Feltri o Vespa però, anche questa strada sembra convincere i già convinti, per essere americanisti ad oltranza ed assatanati contro l’Islam, e andare poco oltre. Vuoi perché questi diversi orrori sono state ritorsioni, e dimostrano al più la nota legge di natura per la quale ad ogni azione corrisponde una reazione eguale e contraria; vuoi perché non si capisce in che consisterebbe la superiorità della così detta democrazia da esportare sulla asserita barbarie islamica.

Più significativo è stato un altro approccio, da parte del mondo americanista- guerriero più sottile, che si legge sulle pagine del "Corriere della sera". Il 14 maggio è intervenuto Sergio Romano, il 17 Ernesto Galli della Loggia, il 15 Piero Ostellino, a dire cose abbastanza simili, che non occorre citare tutte. Fra gli altri, Ostellino, riprendendo Nicola Matteucci, dapprima tenta una distinzione fra torture "orribili", neppure degne di essere chiamate tali, e torture "serie". Alle prime sarebbe ascrivibile "la cronaca nera dei metodi della canaglia di Abu Ghraib che si faceva fotografare davanti a una pila di detenuti, rivelando una assoluta mancanza di professionalità, un’assenza totale di addestramento e di controllo, una inammissibile impreparazione". Le seconde vanno "dalla ruota medievale alle raffinate tecniche psicologiche, farmacologiche, meccaniche d’oggi … una cosa terribilmente seria", perché "il lavoro di intelligence non è un balletto. E’ catturare i sospetti di terrorismo, farli parlare, accumulare la maggiore quantità di informazioni". Il commentatore invita dunque "a ragionare pacatamente, senza ipocrisie" e chiede: "Allora, che si fa? Il governo Berlusconi deve rompere le relazioni con gli Stati Uniti? E se non lo fa, sarà il governo Prodi a farlo? Lo si può escludere. Solo quando emergono pubblicamente violazioni dei diritti umani come quelle di Abu Ghraib, la buona educazione democratica impone che i responsabili siano perseguiti e severamente puniti. Per il resto, le ‘dure repliche della realtà’, gli imperativi della sicurezza ci suggeriscono di fingere di non sapere, ci consigliano di lasciare che ‘quei’ metodi rimangano, oltre che nel profondo dei centri segreti, in quello delle nostre coscienze di buoni democratici. Perché ci conviene." E conclude: "Ipocrisia? Cinismo? No. E’ la ‘democrazia reale’".

Ecco finalmente una buona descrizione del mondo occidentale- democratico nel quale tocca vivere, fatta da un suo sostenitore: cosa rara, dettata dalla eccezionalità del momento. E’ un americanista convinto a dichiarare che la differenza, fra l’occidente colonialista filo- americano e gli innumeri nemici che esso si dà, consiste nel fingere di non sapere le porcherie e le efferatezze praticate dal primo sui secondi; con il consiglio di una maggiore professionalità per coloro che praticano il mestiere del torturatore, e di tornare ad un conveniente silenzio per tutti gli altri. Si ammette, eccezionalmente, come la democrazia reale c’entra così poco con quella descritta sulle sue carte, quanto magari il comunismo reale è somigliato poco alle enunciazioni di Marx, il cristianesimo della Chiesa a quello dei Vangeli, la Sharia a Maometto, il fascismo reale all’armonia del popolo, il pacifismo di tipo religioso alla pace, e così via. Si può senz’altro prevedere che il consiglio di Ostellino è condiviso e sarà seguito. Gli assassini ed i torturatori democratici rinunceranno ai ‘souvenir’, vedranno di essere maggiormente professionali e di non lasciare altre tracce; la punizione formale di qualche carceriere sarà salutata con le approvazioni dettate dalla "buona educazione democratica" e subito dopo la consueta ipocrisia tornerà a coprire gli orrori col silenzio. Viva la democrazia e la bandiera stelle e strisce che fa luccicare di commozione gli occhi del nostro democratico presidente, che quando la guarda pensa alla libertà e ai diritti umani.

Il linguaggio, le definizioni di sé e degli altri hanno un’importanza che spesso sfugge; non rinnovarlo, non distinguerlo da parte di soggetti che vogliono cose molto diverse, fa confondere la realtà con gli infingimenti, chi vuole il mondo com’è con chi vuole cambiarlo. Se sarà improbabile che i dominatori smettano di parlare di democrazia o mondo libero per descrivere se stessi, sarebbe ora che coloro i quali si oppongono al loro progetto abbandonino quei termini ideologici, sforzandosi di coniarne di nuovi, più aderenti alle cose, per evitare di confondersi con loro. Soprattutto, si lasci il termine ‘terrorismo’ ai colonialisti di ogni epoca, gli americani oggi come gli inglesi nel Sudafrica dell’apartheid. Essendo oramai troppo chiaro, e vistosamente provato, che quella qualifica, rivolta al ‘nemico’, significa negare i diritti delle persone e rendersi complici dei torturatori.