Yasser vive nei cuori (novembre 2004)

Yasser Arafat, padre ed anima della Palestina, è morto. E’ un lutto gravissimo per il suo popolo, per coloro che vivono nei Territori l’incubo dell’occupazione militare come per i palestinesi cacciati dalla loro terra, ovunque vivano; e che tutti, in questi giorni, piangono, pregano e si disperano. Si disperano e lo invocano, esprimendo così un sentimento chiarissimo quanto generalizzato: con Yasser non è morta la loro consapevolezza di essere un popolo, costretto ad enormi sofferenze e spogliato sì dei propri diritti, ma ben cosciente di averli. Un miracolo di energia, di vitalità che continua da decenni, a dispetto di tutto. E così, gli onori tributati al combattente morto sono al tempo stesso un tributo a questa straordinaria capacità di resistenza.

Israele, vincente sul piano militare per la enorme disparità di forze, la sua propensione allo sterminio, ed il servilismo imperante nel mondo americanizzato, sul piano etico da sempre e, in questo momento, anche sul piano politico, è perdente. Le lamentazioni sull’insulto praticato allo Stato sionista con questi stessi onori, le grida al "terrorista", la proibizione di seppellire il padre della Palestina alla Spianata delle moschee – apparentemente assurda ma logica dal loro punto di vista di scippatori di territori, vita e simboli – confermano la percezione che decenni di sofferenze inflitte non sono bastate ad uccidere il popolo palestinese, che quando a morire sarà il massacratore di Sabra e Shatilla, Jenin, Rafah, non accadrà nulla di paragonabile a questo funerale, che ha il segno della vita più che della morte.

L’invidia è palpabile. I sionisti non si sanno rassegnare e tentano di confortarsi chiamando accanto a sé gli alleati più sottomessi. C’è da dire che il primato in questa parte, così brutta a vedersi, spetta al nostro Paese grazie anche al nuovo ministro degli Esteri, Gianfranco Fini. Mentre esponenti politici, religiosi, intellettuali di tutto il mondo tributano onori ad Arafat (non importa forse, adesso, che siano tutti sinceri o meno, o che nascondano sensi di colpa o imbarazzo per la mancanza di appoggio reale alla causa palestinese), eccolo il nostro ministro ritto in piedi accanto a Sharon a tributare onori, invece, all’occupazione, a profondersi in rassicurazioni sulla fedeltà italiana al sionismo e, unico al mondo in questo momento, a chiamare "ambiguo" Arafat, il simbolo della lotta palestinese. Che tristezza, che squallore. Fortunatamente l’Italia conta come il due di picche e non sarà il povero Fini a fare la storia della Palestina, né qualunque altra. L’importante adesso è quel feretro strappato dalla gente e portato quasi in trionfo, le parole di Faruk Qaddumi, il leader in esilio a Beirut che prefigura un fronte unito dei palestinesi dei Territori e di quelli il diaspora, la mobilitazione dei campi, il popolo protagonista.